Dal Gay Pride a don Nuvola | La doppia vista della Chiesa - Live Sicilia

Dal Gay Pride a don Nuvola | La doppia vista della Chiesa

Qualche settimana fa c'era indignazione negli ambienti ecclesiastici per un simbolo del Gay Pride inopinatamente apparso sulla facciata della Cattedrale di Palermo. Ma come si concilia questa severità col silenzio e la leggerezza riguardo a fatti gravissimi?

PALERMO, GLI ABUSI
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Che cosa sono gli atti osceni per la Chiesa? Qualche tempo fa, per un’immagine ritenuta equivoca rispetto al contesto, e con qualche ragione in senso assoluto, il segretario del cardinale di Palermo, don Fabrizio Moscato, si espresse così su Facebook: “Vergogna! Stiamo toccando il fondo! L’ideologia omosessualista proiettata sul nobile portico meridionale della Cattedrale di Palermo in occasione del Festino della Patrona Rosalia i simboli del Gay Pride e delle unioni omosessuali accostati ad un neonato. Il carro fatto passate a Porta Felice da un cancello con motivi orgiastici. Ma chi può convincermi che è tutto normale? Ma chi può avere argomenti che difendano un vero e proprio insulto alla nobiltà della fede che la Santuzza ed anche la Cattedrale rappresenta? Chi può dirmi che non si tratti di sudicia provocazione?”.

Basterebbe riprendere le intercettazioni che hanno portato all’arresto di don Aldo Nuvola, in un’indagine per abusi ai danni di ragazzini, e ribaltare l’identica domanda, con un peso centuplicato. Chi può avere argomenti per difendere questa Chiesa, impigliata nel suo doppio sguardo? La doppiezza è evidente. Nel caso del Gay Pride e della Cattedrale – nel caso generico di tutti i gay pride e di tutte le cattedrali – la condanna brucia immediata, senza appello. Si affida a termini che puzzano di cenere sul rogo. In situazioni effettivamente gravissime, vige la prudenza, regnano i distinguo, tutto è sorretto dalla meditazione e dalla cautela che diffidano della fretta. Cambiano scene e protagonisti, cambia l’approccio.

Quali sono stati i provvedimenti nei confronti di questo sacerdote? Aldo Nuvola non è più parroco, però è ancora prete. In possesso dell’interezza di un carisma che lo ha reso più subdolo nella sua opera di seduzione. Nessuno si è posto il problema, a parte la verniciatura superficiale di una sanzione inadeguata. La presunzione di innocenza vale per ogni cittadino. Ma la Chiesa avrebbe dovuto percorrere ogni angolo del suo ampio potere – operazione che compie alla perfezione, se ritiene che ne valga la pena – per evitare rischi, per capire e vigilare, per giungere al nocciolo della questione con i suoi strumenti. E per isolare un personaggio già incorso in incidenti simili. Così non è stato. L’assenza di reazioni a caldo, l’allusione a un futuribile comunicato hanno già il sapore dell’omissione.

Non è nemmeno don Fabrizio Moscato – qui citato come mero esempio – il centro della questione. Sarebbe un rinnovato atto osceno concentrare su di lui e sul suo legittimo parere dell’epoca la lapidazione della rivalsa. Sotto accusa è l’ambiguità di un apparato che schiaccia il pedale della pedagogia con criteri personalistici e discrezionali, distinguendo le pecore del gregge, secondo la necessità del sermone, proiettando all’esterno gli strali della sua inesorabilità e spesso sorvolando sui mali inconfessabili che l’affliggono da dentro. Coloro che sono più vicini al pastore, rappresentano la truppa scelta. Nei loro confronti, quando non ci si può esimere da una sacrosanta condanna, si utilizzano toni improntati alla misericordia e alla dolcezza e alla fraterna comprensione che vale come perenne salvaguardia dell’intero corpo. Per gli altri, i reietti, le pecore nere, il fulmine dell’esecrazione è pane quotidiano. Specialmente se la Chiesa, nella sua fragilità, si sente minacciata e avverte come prossimo il sovvertimento del suo ordine e della sua conservazione.

Stiamo alla vicenda di don Nuvola. Le intercettazioni raccontano abissi di umanità tra l’orrore della violenza inflitta ai più piccoli e la miseria di un’umanità naufraga. Rileggiamole. “Questo amore non conosce umiliazioni… quando uno ama così non ci si umilia mai… ed io non mi sento umiliato per niente… anche se tu sei più piccolo, anche se toccava a te e tutte le minchiate umane dei ragionamenti umani… tutti i ragionamenti umani per me si mettono di lato perché io sono sempre un parrino…”. Siamo tecnicamente nel cuore dell’atto osceno, gli ingredienti dell’abuso sono riconoscibili. C’è la devastazione dell’indifeso. C’è la blasfemia ‘dell’amore che non conosce umiliazioni’, del sopruso scambiato per sentimento. Nessuna vittima potrà mai riprendersi da un simile contrabbando di significati. Nessuno saprà più mettere le cose al loro posto, l’amore con l’amore, la violenza con la violenza, dopo una tale diabolica predicazione.

E poi c’è la qualifica: “Sono un parrino”, un prete. E’ la sostanza di un pensiero ‘abusante’ che scorre sotto la corteccia millenaria della Chiesa. Sono sufficienti la qualifica, la tonaca, il distintivo per ritrovarsi iscritti alla cerchia degli eletti, di quelli che, pur sbagliando, saranno sempre peccatori di serie A, con la garanzia di un giudizio mite in terra e nei cieli.

Noi, il resto del gregge fuori dal recinto, noi, peccatori di infima serie, vorremmo ora una parola chiara. Che distingua l’amore dalla bestemmia. Una parola che dica qualcosa di vero e definitivo sulla differenza di responsabilità tra un segno che sfiora il muro di una Cattedrale e il marchio indelebile impresso nell’anima di un adolescente. Sulla bilancia suprema, ai confini del giudizio e della pietà, cosa pesa di più?


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