Borsellino e i depistaggi: affondo contro la magistratura e Di Matteo

Depistaggio Borsellino, i verbali: “Gli errori dei magistrati”

Parole durissime nella relazione della Commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava
STRAGE DI VIA D'AMELIO
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PALERMO – Le parole usate dalla Commissione regionale antimafia, presieduta da Claudio Fava, sono durissime. Tirano in ballo la magistratura e un suo autorevole rappresentante, Antonino Di Matteo, oggi al Csm, ex pubblico ministero nel processo sulla trattativa Stato-mafia e prima ancora tra i pm di Caltanissetta che indagarono sulla strage Borsellino.

Anche, ma non solo, dalle mani di Di Matteo passarono le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna che sull’eccidio di via D’Amelio raccontò una sfilza di bugie. Fu creduto, però, da decine di pubblici ministeri e giudici.

Nella relazione della Commissione sul depistaggio, approvata alcuni giorni fa, un capitolo è dedicato a Gaspare Spatuzza. Fu quest’ultimo, reo confesso dell’omicidio di don Pino Puglisi, che nel 2008 si autoaccusò anche del furto della Fiat 126 usata per la strage di via D’Amelio, a fare crollare il “teorema Scarantino” che reggeva da diciassette anni.

La commissione ricorda che già nel 1998 Spatuzza aveva reso una testimonianza davanti ai giudici Pier Luigi Vigna e Piero Grasso (all’epoca capo e vice della procura nazionale antimafia) che lo avevano interrogato in carcere. Solo che Spatuzza, però, si era rifiutato di firmare il verbale. Il “teorema Scarantino” così restò in piedi per un altro decennio.

Non è stato facile per Spatuzza ottenere la patente di attendibilità. Il mafioso di Brancaccio si pente nel 2008, ma nel 2010 la Commissione del parlamento nazionale, allora presieduta da Alfredo Mantovano, gli revoca il programma di protezione provvisorio. Non si passa, dunque, al definitivo. Sarà il Tar ad accogliere il ricorso del collaboratore di giustizia. Nel frattempo però Spatuzza ha già offerto nuove prove di attendibilità che fanno cambiare idea ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, all’inizio molto cauti, tanto da non avere dato parere favorevole al programma.

“Il collaboratore di giustizia che consente di smontare le falsità di Scarantino e l’impostura di un depistaggio durato diciassette anni – si legge nella relazione dell’Antimafia siciliana -, che aiuta ad individuare nel garage in cui viene preparata l’autobomba la presenza di un soggetto estraneo a Cosa nostra, che offre indicazioni certe e riscontri puntuali sulla strage di via D’Amelio, fatica ad ottenere ascolto”.

Ma “l’incidente di percorso con la Commissione del Viminale (che è del 2010) ha un pregresso significativo”. E i commissari lo approfondiscono. Nella primavera del 2009 Spatuzza collabora già da un anno. A partire dal 26 giugno 2008 la sua versione sui fatti di via D’Amelio, che smonta radicalmente le parole di Scarantino, è già stata offerta ai magistrati di Firenze, Caltanissetta e Palermo. Il 22 aprile 2009 la Direzione nazionale antimafia riunisce i magistrati di cinque procure (Firenze, Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria e Milano) per una prima valutazione su quella collaborazione e, soprattutto, per esprimere un parere sull’inserimento definitivo di Spatuzza nel programma di protezione.

Parte di quella riunione è stata trascritta nella richiesta di archiviazione della procura di Messina – poi accolta dal Gip – per i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, inizialmente coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio. In quella riunione ci furono due interventi di Di Matteo. La commissione li riporta: “Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che la collaborazione di Spatuzza, a suo giudizio, non è di particolare rilevanza (…)”.

Nel suo secondo intervento, sempre alla riunione, “Il dott. Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alle dichiarazioni di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza potrebbero mettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, ormai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori della giustizia”.

Ed ecco la bordata dell’antimafia regionale: “Rileggere questi verbali oggi, con la consapevolezza di quale castello di menzogne si fosse costruito muovendo dalle dichiarazioni di Scarantino, è allarmante. Si ritiene di non dover concedere il programma di protezione a Spatuzza perché la sua collaborazione ‘non è di particolare rilevanza’ e soprattutto perché ‘potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti”. Che è esattamente ciò che era accaduto. E che proprio Spatuzza stava aiutando a svelare”.

La relazione prosegue nella sua durezza: “Non solo diciassette anni spesi ad inseguire e legittimare processualmente le fantasie d’un collaboratore di giustizia indottrinato, scegliendo di non fermarsi di fronte ad una incredibile progressione di contraddizioni; ma anche il tentativo di archiviare Spatuzza come un soggetto poco credibile, perfino dannoso nel momento in cui contribuisce a mettere in discussione verità ormai acclarate: il sospetto che quelle verità fossero una somma di mistificazioni continua ad essere un pensiero rimosso, fastidioso, dannoso. Che potrebbe gettare ‘discredito sulle istituzioni dello Stato’. A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, se discredito si è accumulato, è proprio per quel depistaggio che, ieri come oggi, puntava a fornire una lettura rapida e confortevole (solo mafia!) sulla morte di un magistrato e di cinque agenti di polizia”.


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