Depistaggio in via D'Amelio: "Non solo la mafia dietro la morte di Borsellino" - Live Sicilia

Depistaggio in via D’Amelio: “Non solo la mafia dietro la morte di Borsellino”

Le motivazioni della sentenza.
IL PROCESSO A CALTANISSETTA
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PALERMO – “L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’ eliminazione di Paolo Borsellino”. Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il processo si è concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Bo e Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Ribaudo.

I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno sottolineato “l’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi – non solo spettatori degli avvenimenti dell’epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame – a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti”.

“Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della Polizia di Stato), – spiegano – e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato”. 

Si legge ancora: “Senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, della falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino (e della falsa ricostruzione della strage di Via D’Amelio che ne è derivata) non si sarebbe acquisita certezza. Tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà”. 

I Servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage di via D’Amelio. “Dell’impropria partecipazione del Sisde alle indagini non era al corrente solo il procuratore Tinebra (che pure la sollecitò), ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. E’ legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino”, spiegano. Il collegio sottolinea che Tinebra non sarebbe stato il solo magistrato a sapere del ruolo degli 007 nell’inchiesta.

“Sarebbe inspiegabile sul piano della logica – dicono – ritenere che Tinebra abbia avviato solitariamente la collaborazione con il Sisde; se veramente così fosse stato egli avrebbe tenuto il più possibile celati tali contatti mantenendo riservati i colloqui e non certo promuovendo la partecipazione dei magistrati dell’ufficio a riunioni o pranzi con esponenti del Servizio”. “È probabile – concludono – che pur essendo i magistrati dell’ufficio pienamente a conoscenza di tale collaborazione nessuno ritenne, anche in ragione del fatto che si trattava di un’iniziativa promossa dal capo dell’ufficio, di sollevare (e soprattutto registrare, lasciandone traccia scritta) obiezioni rispetto ad una collaborazione con il Sisde che non era consentita”.

“Scarantino è un mentitore di professione: è un soggetto che mente dal 1994 e che ha deliberatamente deciso, a distanza di quasi trent’anni, di continuare ad offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false. Anche nell’odierno procedimento ha certamente prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia – certamente ampi – che, per scelta o più probabilmente per necessità, gli vennero lasciati”, scrivono i giudici.

Scarantino è uno dei falsi pentiti che, secondo l’accusa, sarebbero stati imbeccati dalla polizia guidata allora da Arnaldo La Barbera. “Più che rappresentare una prova scivolosa da maneggiare con cautela, Scarantino rappresenta una prova insidiosa dalla quale è necessario prescindere a meno di non rimanere ostaggio delle altalene dichiarative dell’ex falso collaboratore”, spiegano. “Proprio alla luce della sua costante ambiguità dichiarativa, risulta praticamente impossibile discernere – concludono – quali siano le singole circostanze effettivamente suggerite e quali siano frutto della personale iniziativa, con la conseguenza che non è possibile attribuire con sicurezza una condotta ad un soggetto piuttosto che ad un altro”.

“Gli elementi probatori analizzati finora non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”. Lo scrivono i giudici di Caltanissetta in riferimento all’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera ritrenuto dall’accusa il “motore” dell’inquinamento dell’inchiesta.

“Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera e – dopo essere stato messo da parte alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada – una volta rientrato nel circuito abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato e nell’establishment del tempo”, spiegano. Sui maltrattamenti che il falso pentito Vincenzo Scarantino riferì di aver subito nel carcere di Pianosa dalla polizia che voleva costringerlo ad accusarsi della strage e accusare innocenti “non può ritenersi – aggiungono – che gli stessi fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera (ex capo della Mobile ndr) o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio ndr)”.

“Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera”, proseguono. “Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza” concludono i giudici che parlano di una “disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione.”


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