Antonio Giordano, cronista di Livesicilia, dopo essere stato in Ucraina, ci racconta un altro viaggio. Diverso e appassionante.
Le pareti di ghiaccio si sbriciolano e dopo qualche secondo arriva il rombo. Come un tuono ma più secco. Solo che lui vuole parlare di come sono andati gli europei di calcio. Jason è il marinaio della barca che porta un mucchio di turisti nella baia di Aialik, uno dei fiordi nascosti nella zona sud dell’Alaska.
Di fronte a un’isoletta la lingua del ghiacciaio Aialik che dà il nome alla baia si fa largo tra le cime montuose e arriva nelle acque grigie del Pacifico con un movimento lento e continuo, ma Jason è interessato solo al pallone. È l’unica persona originaria dell’Alaska che è stato possibile incontrare in quindici giorni e non è impressionato.
Gli italiani, spaesati dall’esuberanza della natura tutt’intorno, vorrebbero chiedergli com’è vivere in quella zona d’inverno, quando le temperature sono stabili sotto i dieci gradi e per le ore di sole basta solo un quarto di orologio. Lui risponde con un sorriso: bisogna inventarsi qualcosa fuori, devi sapere fare snowboard o sci o montare su una slitta per cani, cosa ne pensiamo però di come ha giocato l’Inghilterra nell’ultimo europeo? A lui è sembrato calcio banale, impreciso, confusionario. Siamo d’accordo?
Certo che lo siamo. Si vorrebbe sfottere lo statunitense che parla di calcio chiamandolo football e non soccer, caso più unico che raro, ma poi ci ricordiamo che l’Alaska è un’America molto particolare. The last frontier, come ci tengono gli alaskans a specificare nelle targhe delle proprie auto.
Il quarantanovesimo stato
Forse uno stato dell’unione, ma di sicuro un luogo in cui le regole e le consuetudini dell’essere americani si fanno di volta in volta sia più elastiche che più ferree. Dove i paesaggi, le montagne, i fiumi e il mare tolgono a chiunque la misura e le parole per descriverli, e dove lo sfruttamento delle risorse naturali ha contrassegnato ogni fase della storia dello stato, prima ancora che entrasse a fare parte degli Usa. Le pellicce quando c’erano ancora i russi, poi l’oro, la guerra, il legname, il petrolio.
L’Alaska è una specie di grande riserva per gli Stati Uniti. Un posto in cui i cittadini da tutti gli altri stati, i 48 lowers come dicono in Alaska, vengono a vivere un po’ della propria avventura e a sperimentare la vita in mezzo ai boschi prima di tornarsene in lidi più caldi.
Qui si è americani in purezza – dicono – e dunque ci si allontana parecchio dagli statunitensi medi. Gente che chiacchiera con te per strada mentre rimette nella custodia le pallottole della 357 magnum che ha portato nel bosco, oppure che si fa in quattro per darti consigli su dove andare quando finisci in una città di mare.
John McPhee, grande scrittore americano che all’Alaska ha dedicato il suo libro più importante, acclamato ancora oggi come il migliore pezzo di prosa mai apparso sul quarantanovesimo stato, ha scritto: “L’Alaska è un paese straniero popolato in modo significativo da americani. La sua lingua si estende all’inglese.”
C’è tutta una parte di Alaska che riguarda i popoli nativi e che è tenuta, o si tiene volontariamente, fuori dai circuiti turistici. Si intuisce la sua presenza dai nomi dei luoghi o dal tipo di cucina, immancabilmente basata sulle proteine, sui pesci, sui grassi. Ma i nativi non mettono piede nelle zone più battute dai turisti.
Quali alaskans?
Non esiste qualcosa come un cittadino tipico dell’Alaska: tutti vengono da fuori, ciascuno a caccia della propria occasione. Persino le guide più esperte sono originarie di altri stati, sono qui per stare il più possibile a contatto con la grande natura selvaggia e poi andare via quando l’inverno diventa troppo duro per gli esseri umani che hanno la possibilità di andarsene via.
Nate, intorno ai trent’anni, fa la guida all’interno del ghiacciaio Matanuska, in una valle lunga centinaia di chilometri che scorre parallela alla costa. Conosce il Matanuska come il cortile di casa sua, le sue vie, le sue pareti, i luoghi in cui è possibile berne l’acqua, le pozze.
Se non fosse che forse per Nate il Matanuska è il posto più vicino a quello che potrebbe chiamare una casa: per fare la guida vive quattro mesi all’anno in una yurta, una tenda con una struttura in legno, in campeggio con altre guide. Vita all’aperto, cucina in proprio, nessun muro e poche comodità.
D’inverno, che in Alaska va da settembre a maggio, se ne va in Vermont a insegnare matematica. Prende una stanza in affitto da una vecchia signora. Non ha nessun altro progetto se non quello di continuare a vivere l’aria aperta il più possibile. Quando parla del suo lavoro da ingegnere è distante, si infiamma solo quando gli si accenna alla vita all’aria aperta e allo snowboard, di cui è grande fan.
Camminando per il Matanuska è possibile sentire la vita del ghiacciaio, il suo spostarsi eterno dalle montagne a valle. A volte però arrivano suoni molto più umani. A intervalli regolari qualcuno, nei boschi sopra il ghiacciaio, svuota il caricatore di un’arma automatica. Nate, interrogato, sorride: qui molti hanno questa passione, io non la capisco per niente ma a loro piace così.
Libertarians
Inevitabile chiedere: com’è, politicamente, l’Alaska? Nate ci mette mezzo secondo: sono dei libertarians, sono quasi dei fanatici della propria libertà personale e del tenere qualsiasi tipo di governo lontano dalla propria vita privata. Forse per questo votano, tradizionalmente, repubblicano.
Ma qui nella frontiera è difficile dividere il mondo come se fosse tutto una grande metropoli. La libertà assoluta riguarda anche le persone, i loro diritti. Su cui gli alaskans sono molto meno contraddittori che in altri stati conservatori. Sull’aborto, ad esempio: l’Alaska è uno dei quattro stati in cui l’aborto è legale da prima della sentenza Roe vs Wade che lo rese legale a livello federale, e dunque non è stato influenzato dall’abolizione della sentenza da parte della Corte suprema nel 2022.
La politica non è onnipresente, ma non si può dire che non si veda. Correndo su una delle due highway che attraversano lo stato grande quanto l’Europa a volte capita di vedere dei cartelli elettorali che invitano a votare questo o quel candidato. È il segnale, se non altro, che si è arrivati nei pressi di un centro abitato, che da questa parti sono nascosti dai boschi, diffusi su spazi impensabili in Europa.
In un negozio di souvenir e chincaglieria a Homer, sulla costa del sud, l’anziana padrona espone una Chevrolet del 1956 e su un ripiano vende tutto il merchandising di Trump, con cappelli Make America Great Again, tazze e pupazzetti di Donald Trump.
Gli oggetti quasi spariscono dietro i cartelli intimidatori che dicono di non danneggiare o fare vandalismo sulla propaganda trumpiana: “Vi abbiamo già ripreso in video, non continuate a distruggere gli oggetti, non toccatelil, siete ripresi, sapremo che state vandalizzando gli oggetti MAGA”.
La natura selvaggia
Pensare all’Alaska però è pensare soprattutto alla sua natura. La più grande risorsa dell’Alaska è l’Alaska stessa, la sua enorme foresta boreale, i fiumi e i laghi, le terre zeppe di minerali e gas. Tutto contenuto in un paesaggio di una bellezza fuori scala, le enormi valli che digradano fino al monte Denali, il più alto di tutta l’America del nord, e i paesaggi vulcanici della costa sud.
La sensazione onnipresente è che la linea tra la civiltà e la natura selvaggia qui sia molto sottile, in una specie di filo diretto con il pianeta di 20 mila anni fa, con i suoi ghiacciai e le sue foreste. Le 750 mila persone dell’Alaska vivono concentrate a metà in una città, Anchorage, che appena cinquant’anni fa era un mucchio di tende, e per l’altra metà sparse nell’enorme territorio del nord. Le regole che valgono nei territori urbani, nei lower 48, sono in qualche modo attenuate. Ancora oggi l’Alaska si sente l’ultima frontiera.