Diego che prestava la macchina e gridava: "Vamos a ganar!"

Diego che prestava la macchina e gridava: “Vamos a ganar!”

Le partitelle con Sivori, gli atti di bontà. Il Maradona segreto e generoso.

Diego e il calcio della radiolina e delle dita appese all’inferriata in uno stadio in bianco e nero. Diego e i gol che in diretta te li dava ScusAmeripregoCiotti. Dalla fine di tutto il calcio minuto per minuto, l’astinenza cresceva e i minuti non passavano mai, a casa di parenti in cui il pallone era guardato con sospetto, sicché – perché erano comunque democratici – ti avevano garantito una stanza con la menzionata radiolina, un televisorino in bianco e nero e lo zio ferroviere che segnava i risultati, a mano, sulla schedina. Ed era Paolo Valenti a spezzare il digiuno dei gol visibili, quando appariva la sigla di ‘Novantesimo’. E aspettavi Tonino Carino da Ascoli, come se fosse uno zio supplementare. Magari sgranocchiavi un cannolo avanzato dal pranzo e glielo offrivi. “Tonì, ti va?”.
In mezzo a questo reame di sogni a occhi aperti, cavalieri che palleggiavano con grazia o con rudezza, dame, amori e soprassalti, c’era lui, il re, DiegoArmandoMaradona. E se lo dici tutto d’un fiato ti pare di sentire l’eco del mare nel cavo di una conchiglia. E c’era Massimiliano Favo, grande capitano e interprete di un Palermo indimenticabile. C’è una foto che li ritrae, Diego e Max, quando giocavano nel Napoli. Il secondo, un diciottenne di talento che si sarebbe fatto strada. Il primo, semplicemente il Dio del calcio, catapultato nella terra delle speranze e dei patimenti per realizzare il miracolo che, in effetti, realizzò. Guardiamola insieme questa foto perché sistema sugli scaffali del tempo, cose dolci e bellissime dentro una sovrapposizione irripetibile: il sorriso di uno che, come ha scritto Mario Sconcerti, ‘ha sempre saputo tutto’ e la beata incoscienza di un giovane calciatore che condivide un ritaglio con l’infinito.

“La mamma che dava il suo cibo ai figli”

Parlare con Massimiliano Favo è un piacere, per il forziere di storie di calcio e per le parole che le scrivono, a fior di labbra, come sfogliando le pagine di un romanzo epico. “Io – racconta – voglio soltanto dire che persona era Diego: un ragazzo buono e generoso. E ti prego: non parlare di me, parla di Diego. Sai – prosegue quella appassionata e forbita narrazione -, ognuno di noi ha la sua storia e molto dipende dal luogo in cui nasci. Diego stava in una casa senza riscaldamento, senza niente. La mamma faceva finta di mangiare e poi dava il suo cibo ai figli e aveva dolori allo stomaco per i morsi della fame. E c’è la storia di questo scugnizzetto che a quindici anni era già un giovane fuoriclasse amatissimo e pagato bene, che ha comprato la casa ai suoi, che ha portato con sé i suoi amici meno fortunati. E se la famiglia chiamava, perché qualche altro amico aveva bisogno, lui non si sottraeva mai. Aveva un grosso problema di cui soffriva, la mancanza di libertà. Quando ti senti prigioniero, anche di te stesso, puoi cadere. Era un uomo sensibile, Diego, alle volte chi gli è stato vicino per lavoro ha sfruttato questo fatto. Lui ti trattava come un fratello, ti prestava la macchina, se ne avevi bisogno, e ti procurava tutte le scarpe che volevi con lo sponsor, era affettuoso, un leader buono. Ha fatto del male solo a se stesso”.

“Vamos a ganar”

Diego era così – continua Favo -. Ho letto un articolo del Clarin dove è stato scritto che era troppo in tutto. Un articolo che ho tradotto e ricopiato. È vero, era troppo pure per se stesso. Prima di entrare in campo gridava: ‘Vamos a ganar!’. Dava il cinque a tutti e tutti lo rispettavano come lui rispettava gli altri. Era umile, un grande professionista. Di Zico diceva: ‘È più forte di me nella genialità, ma io…’. Poi si toccava la gamba, come per sottolineare la sua potenza. Era un ragazzo sincero e non si preoccupava delle conseguenze delle sue affermazioni. Ogni calciatore ne parla soltanto bene. Ma tu te lo immagini un fuoriclasse che, oggi, va a giocare per beneficenza in un campetto ad Acerra? Lui, il lunedì dopo la partita, vicino a Posillipo, faceva la partitella a calcetto con gli amici, c’era anche Omar Sivori. Quando è successo, mi ha chiamato mio padre al telefono,ma non è riuscito a finire il discorso, perché si è messo a piangere. È normale piangere per Maradona. È come se mi fosse morto un fratello e non mi piaceva quando, in certe trasmissioni, lo trattavano da foca con la palla. Sì, lui soffriva per la mancanza di libertà, perché Diego era rimasto il ragazzo di sempre, gli interessava soltanto correre sul campo con il pallone al piede. Pensa che la divisa sociale, giacca e cravatta, l’ha indossata soltanto una volta, forse, per il resto usava la tuta. Tutti potevano parlare con Diego. Se eri un giornalista e gli piacevi, mica avevi bisogno di passare dall’addetto stampa. All’uscita dallo spogliatoio ti prendeva sotto braccio e rilasciava l’intervista…”.
Tante altre sono le parole e le storie di Massimiliano, alcune confinano con le lacrime, altre con i sorrisi.

Una storia, intanto, finisce qui e chi lo sa se ci sarà un infinito disponibile per scriverla interamente. Una trama di dita strette intorno alle inferriate, di radioline e di zii ferrovieri che, con lo scoccare della domenica pallonara, ridevano come bambini. Ma se esiste un prodigio del cuore come il calcio – lontano degli sguardi degli invidiosi e dei censori professionali – esiste anche un Dio, scritto maiuscolo perché era fragile come un uomo. È esistita, almeno, questa divinità mortale, questo ragazzo d’oro che risorgerà ogni giorno nei pensieri di tanti che lo hanno amato senza mai giudicarlo. E adesso riposa sotto uno specchio di cielo argentino, accanto a suo padre e a sua madre, perché perfino gli dei, quando scende la notte, hanno paura di addormentarsi da soli.


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