Un lungo elenco di boss | Chi sono gli scarcerati eccellenti - Live Sicilia

Un lungo elenco di boss | Chi sono gli scarcerati eccellenti

La mappa mandamento per mandamento.

PALERMO – Bisogna ravvolgere il nastro. E restare vigili. La storia impone di non sottovalutare la valanga di scarcerazioni. Per ultima quella di Giovanni Grizzaffi, il nipote di Totò Riina. I primi a guardare con attenzione la situazione sono magistrati e forze dell’ordine. Gotha, Perseo, Paesan Blues, Old Bridge, Hybris sono sono alcune delle operazioni che hanno concluso il loro iter: dagli arresti alla condanne definitive già scontate. Il risultato è che sono tornati in circolazione decine e decine di uomini che figuravano nel clan di un quindicennio fa. Non per forza i mafiosi di ieri saranno anche quelli di domani. Solo che in passato è accaduto troppo spesso per non stare in guardia. Ancor di più se liberi sono tornati boss di spessore.

Le ultime due scarcerazioni eccellenti prima di Grizzaffi sono state quelle del boss di Bagheria, Pino Scaduto, e del suo vice vice. I primi giorni dello scorso mese di aprile Scaduto è passato dal 41 bis alla libertà. Al carcere duro vi è rimasto per quasi nove anni. E cioè dalla fine del 2008, quando emerse il suo ruolo centrale nella riorganizzazione di Cosa nostra. Boss di città e provincia provarono a serrare i ranghi dei clan fiaccati dagli arresti. Come? Convocando la commissione provinciale di Cosa nostra che non si riuniva dall’arresto di Totò Riina. Erano i giorni del blitz Perseo dei carabinieri. Le microspie registrarono il fermento dei clan di Bagheria e dintorni. Scaduto era il referente per una grossa fetta della provincia palermitana, convocava le riunioni nella sua abitazione di via Senatore Scaduto e dettava le regole. Al suo fianco c’era Gino Mineo, il boss che in carcere ha imparato ad amare la poesia. Dicono che abbia cambiato vita e per questo nei mesi scorsi gli erano già stati concessi gli arresti domiciliari. Poi, l’assoluzione da alcune estorsioni, condivisa con Scaduto.

È dei primi mesi del 2017 la liberazione di un gruppo di boss arrestati nel luglio del 2011, quando le indagini sulla latitanza del picciuteddu, Gianni Nicchi, si incrociarono con quelle sul mandamento di Pagliarelli che ingloba, oltre all’omonima famiglia mafiosa, quelle di Corso Calatafimi, Borgo Molara e Rocca-Mezzo Monreale. L’elenco dei fermati si apriva con Nicchi e proseguiva con Michele Armanno che ne aveva preso il posto al vertice della cosca. Uscito dal carcere, dove aveva scontato una condanna per mafia, lo zio Michele si era rimesso subito in attività. Per lui nel giugno scorso la Cassazione ha reso definitiva una condanna a vent’anni. È lo stesso processo che riguardava la posizione di una serie di imputati che, al contrario di Armanno, hanno finito di scontare pene di poco superiori ai sei anni. Dallo scorso gennaio sono di nuovo liberi Vincenzo Annatelli, Mariano Morfino, Giovanni Tarantino e Giuseppe Zizo. La pescheria di Tarantino, in corso Calatafimi, era una delle basi operative del clan. L’altra era la tabaccheria di Giuseppe Bellino al Villaggio Santa Rosalia. Bellino tonerà libero far alcuni mesi, visto che la condanna nei suoi confronti era stata più pesante. Stessa cosa per Filippo Burgio che aveva trasformato la sua concessionaria di motociclette in corso Vittorio Emanuele nella stazione di posta del giovane latitante.

La carcerazione ha lo scopo di rieducare il detenuto. La cronaca, però, racconta che non sempre ci si riesce. Anzi, accade spesso il contrario. Non è un caso che la mafia sia quella dei soliti noti. Gente che entra ed esce dai penitenziari. Da qui la necessità per gli investigatori di vigilare sugli scarcerati. Specie quando hanno una storia che conta nella recente Cosa nostra. È il caso di Giulio Caporrimo, boss di San Lorenzo tornato libero lo scorso febbraio. Ha lasciato la cella di Parma dove era rinchiuso dal novembre 2011. I suoi legali hanno ottenuto che l’ultima condanna a dieci anni venisse ricongiunta con una precedente già scontata, sulla base del cosiddetto “cumulo”.

Un istante dopo la precedente scarcerazione dell’aprile 2010 Caporrimo si era già ripreso il suo posto di capomafia. Fedelissimo dei Lo Piccolo, aveva stretto alleanze importanti in carcere, dove aveva condiviso la detenzione con Epifanio Agate, figlio di Mariano, capomafia di Mazara del Vallo. Aveva intessuto legami anche con la criminalità organizzata calabrese e pugliese. E con i “napoletani appartenenti agli amici nostri” che differenziava dagli “scissionisti” da lui definiti quattro scappati di casa… di Scampia”. In carcere era diventato grande amico di Cosimo Lo Nigro e Paolo Alfano, entrambi ergastolani, a cui aveva fatto il favore, tramite il padre, di trovare un posto di lavoro ad alcuni loro parenti. Gli era bastato poco più di un anno di operatività per candidarsi come il leader dell’intera mafia palermitana. Nel 2011 fu lui a convocare una grande riunione a Villa Pensabene, un maneggio alle spalle del velodromo Paolo Borsellino. C’erano i capimafia di Tommaso Natale-Resuttana, Brancaccio, Boccadifalco e Passo di Rigano. Ancora oggi, sei anni dopo il summit, restano un mistero i temi di cui si discusse. Tra i capimafia fotografati all’arrivo al ristorante c’era anche Giuseppe Calascibetta, capomandamento di Santa Maria di Gesù, che pochi mesi dopo sarebbe stato crivellato di colpi sotto casa. Il suo è uno dei delitti ancora senza colpevoli.

Le scarcerazioni riguardano quasi tutti i principali mandamenti mafiosi della città. Ha scontato la pena Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, il barone di San Lorenzo, e fratello di Sandro, oggi entrambi condannati all’ergastolo. Arrestato per mafia, dopo avere scontato nove anni e dopo un solo anno di libertà tornò in carcere nel 2008. L’arresto dei parenti nella villetta di Giardinello – era il 2007 – accelerarono al sua scalata al potere. Secondo i pentiti, Calogero si occupava per lo più di pizzo. E per estorsione venne, infatti, condannato. Sempre a San Lorenzo è libero da tempo Giovan Battista Giacalone. Mafia, pizzo e affari: Giacalone era diventato un re della grande distribuzione fino a quando il suo patrimonio, composto da società e supermercati non conobbe la mannaia delle Misure di Prevenzione. Nella stessa fetta di città, spostandosi da San Lorenzo a Resuttana, è libera Mariangela Di Trapani, 50 anni sette dei quali trascorsi in carcere. È figlia e sorella di due uomini d’onore, nonché moglie di Salvino Madonia, ergastolano per una serie di omicidi fra cui quello dell’imprenditore Libero Grassi, simbolo di una lotta al racket pagata con la vita. Il fratello Nicolò in un’intercettazione tracciava il destino di Mariangela. Un destino di cui si è spesso artefici: “Mariangela ha sofferto da picciridda… a scuola non c’è più andata per amore di mio padre e di me… perché se ne è voluta venire con noi”. Quella scelta la portò a diventare il tramite operativo fra i parenti rinchiusi al 41 bis e i mafiosi che all’esterno dovevano eseguire gli ordini.

Da Resuttana all’Acquasanta dove ha finito di scontare la pena il settantenne Vincenzo Di Maio. Di lui ha parlato di recente il pentito dell’Acquasanta Vito Galatolo: “C’era Antonio Pipitone, la gestiva lui. Però Vincenzo Di Maio si gestiva anche l’Acquasanta, incontri interni, perché

Antonio Pipitone si manteneva sempre più distante per avere contatti con esponenti a livello imprenditoriale, costruttori, perché loro avevano con suo cognato, Masino Cannella, uomo d’onore della famiglia di Prizzi, gestivano la calcestruzzi di cemento, e lui si gestiva di più questo lato economico, e tutto reggeva Vincenzo Di Maio”. E sempre fra Resuttana e l’Acquasanta si muoveva Sergio Giannusa – pure lui di nuovo libero – finito dentro in una delle operazione “Eos” dei carabinieri, uomo di Salvatore Genova prima e, dopo il suo arresto, dello storico padrino Gaetano Fidanzati, signore dell’Acquasanta. E che dire di un personaggio come Giovanni Niosi. La sua scarcerazione risale ad alcuni anni fa, ma il suo nome è tornato di grande attualità. Giovanni Vitale, uomo del racket a Resuttana, lo ha tirato in ballo in alcuni recenti verbali che ricostruiscono il controllo sistematico della mafia sulle corse all’Ippodromo di Palermo.

Altro nome della vecchia mafia che ha saldato il conto con lo Stato è Michele Micalizzi, originario di Pallavicino. In carcere c’è rimasto un quarto di secolo. Il suo nome è tornato a circolare nelle pagine delle recenti cronache giudiziarie nell’inchiesta che ha portato alla condanna all’ergastolo di Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga per l’omicidio dell’agente delle guardie penitenziarie dell’Ucciardone, Calogero Di Bona. Di nuovo libero, dopo essere stato condannato nel processo Perseo, è pure Giuseppe Lo Verde, che a Tommaso Natale tutti chiamano Pino.

Nei giorni del blitz Perseo, nel 2008, il capomafia di Bagheria Scaduto chiedeva ai suoi interlocutori Giovanni Adelfio, Antonino Spera e Sandro Capizzi “a Tommaso Natale chi c’è?”, intendendo chi avesse preso il comando. In risposta ricevette i nomi dell’architetto Giuseppe Liga e quello di Lo Verde. E proprio dall’elenco degli imputati del processo Perseo provengono i nomi di altri scarcerati: Sandro Capizzi (per lui arrivò la decorrenza dei termini di custodia cautelare), Giuseppe Perfetto, Massimo Mulè, Salvatore Adelfio, Salvatore Freschi e Giuseppe Calvaruso.

Sempre a Resuttana hanno espiato la pena anche Salvatore Castiglione e Antonino Cumbo, un tempo uomini fidati di Giovanni Bonanno, il reggente del mandamento di Resuttana inghiottito dalla lupara bianca nel gennaio 2006. La sua gestione della cassa del clan aveva creato troppi malumori. Quando lo tolsero di messo ai suoi vecchi picciotti, tra cui Cumbo e Castiglione, fu dato l’ordine di sanare i debiti per voltare pagina. Libero a Resuttana anche Francesco Di Pace, l’uomo a cui, secondo l’accusa, i Lo Piccolo avevano affidato il business dei maxischermi pubblicitari piazzati in giro per la città.

Lunghissimo l’elenco dei mafiosi di Porta Nuova di nuovo liberi. Si tratta del mandamento che in questi anni ha tenuto in mano le redini della Cosa nostra di una grossa fetta di Palermo. A cominciare da Gregorio Di Giovanni che era capomandamento nei giorni in cui, nel 2010, veniva brutalmente assassinato l’avvocato Enzo Fragalà. Francesco Chiarello, il pentito che ha fatto riaprire l’inchiesta sull’omicidio del penalista, lo tira in ballo pesantemente. “Tonino Siragusa mi dice ‘io u tinni e Tonino i corpi ri mazza ci fici fetiri’ – ha messo a verbale Chiarello – Siragusa gli ha dato i colpi e Ingrassia lo teneva… dice che le persone si fermavano ‘lassatilu iri, sta murennu’… Tonino Abbate pigghia e scappa… però il mandante di tutto è stato Di Giovanni”. Nelle scorse settimane Tonino Siragusa, finito in cella per il delitto, ha deciso di raccontare la sua verità che in diversi punti cruciali fa a pugni con quella di Chiarello. Ce n’è abbastanza per parlare di rompicapo. Tocca ai pm di Palermo sbrogliare la matassa di un intrigo che coinvolge il clan del Borgo Vecchio.

Fragalà avrebbe pagato con la vita l’atteggiamento di collaborazione consigliato ad alcuni suoi assistiti. Per punirlo si sarebbero mossi gli uomini di Porta Nuova che fecero un favore al clan di Pagliarelli che aveva un conto aperto con Fragalà. Pagliarelli e Porta Nuova sono sempre stati molti vicini. Arcuri, uno degli arrestati per il delitto, era amico di Gianni Nicchi. La sera prima che arrestassero il giovane latitante nel covo di via Juvara, Arcuri e Nicchi erano andati in giro per locali. Un legame forte confermato da Chiarello, secondo cui, “Gregorio lo doveva fare già prima questo, anzi si diceva quando c’era Gianni Nicchi”. Fragalà era già stato condannato a morte. Le sole dichiarazioni di Chiarello, però, non sono bastate a contestare il reato anche a Di Giovanni.

Lo scorso dicembre sono scaduti i termini di custodia cautelare sono scaduti per un altro Di Giovanni, Tommaso, pezzo grosso della mafia di Porta Nuova. Era detenuto dalla fine del 2011. Su Di Giovanni pesa una condanna in appello a otto anni e cinque mesi che gli è stata inflitta nel maggio del 2015. Gli era andata peggio in primo grado: 16 anni. La Cassazione ha annullato la sentenza d’appello con rinvio solo per due capi d’imputazione. Tutto il resto delle accuse sono ormai definitive.

Era lui il capo del mandamento, gestito assieme allo zio Calogero Lo Presti. A lui si deve un’idea innovativa nel panorama della recente Cosa nostra palermitana. Basta aiuti a pioggia che pesavano e pesano sulle casse dell’organizzazione, meglio assegnare una cifra, seppure consistente, ai familiari dei boss arrestati affinché aprano un’attività commerciale. I finanziamenti arrivavano anche dallo spaccio di droga che Di Giovanni aveva organizzato a piazza Ingastone, nel cuore del rione Zisa, a pochi passi dalla macelleria che il boss gestisce con il fratello.

Sempre a Porta Nuova è libero ormai da tempo Massimo Mulè. Anche nel suo caso erano scaduti i termini massimi di custodia cautelare. Erano trascorsi troppi anni senza che la sentenza fosse divenuta definitiva. E quando lo divenne la pena già scontata in regime di carcerazione preventiva copriva la pena che gli era stata inflitta. Meno di un anno fa ha finito di scontare la pena Nicola Milano che, intercettazioni alla mano, temeva di beccare una condanna a trent’anni di carcere, ed era certo che gliene sarebbero stati inflitti “almeno quindici”. Alla fine ha scontato quatto anni e sei mesi.

A scrollarsi di dosso una pena ben più pesante, l’ergastolo, era stato Giuseppe Dainotti, assassinato a fne maggio in via D’Ossuna. Dopo un quarto di secolo era stato scarcerato. Anche lui del clan di Porta Nuova, factotum del boss Salvatore Cancemi, in cella c’era finito per il colpo miliardario al Monte dei Pegni di Palermo, ma soprattutto per omicidio. Nel 2000 entrò in vigore la legge Carotti che aveva disposto la sostituzione dell’ergastolo con la pena di trent’anni. Il 23 novembre quella legge, però, fu superata da un decreto legislativo che all’articolo 7 sanciva il ritorno al passato. E cioè all’ergastolo. Nel 2009 la Corte europea diede ragione a un imputato italiano e la Cassazione gli ridusse la pena a trent’anni. E così, in virtù della pioggia di ricorsi davanti ai supremi giudici, la Corte costituzionale intervenne stabilendo, una volta e per tutte, che l’articolo 7 del decreto legislativo del 2000 era incostituzionale.

Chi rischiò di tornarci in cella a lungo fu Salvatore Gioeli. Era il 2014 quando con il blitz Iago i carabinieri frenarono la violenta reazione all’omicidio di Giuseppe Di Giacomo, uomo forte della famiglia di Palermo Centro. Lo arrestarono e lo scarcerarono subito. “Signor giudice, lei mi conosce, ho saldato il mio conto, non fatemene pagare un altro per qualcosa che non fatto. Da quando sono uscito, ho solo lavorato”, disse Gioeli, soprannominato Mussolini, rimasto in cella vent’anni dei suoi quarantotto di età. “Ho pagato a caro prezzo – spiegò al Gip Piergiorgio Morosini – ma ora non ho fatto nulla. Sono libero da pochi mesi, faccio il cameriere. Mi hanno pure licenziato. È mortificante”.

A Pagliarelli è ormai libero da tempo Salvatore Sorrentino, soprannominato lo studentino. Poco più che cinquantenne aveva iniziato facendo il rapinatore e si era ritrivato a comandare la famiglia mafiosa del Villaggio Santa Rosalia. Era vicino a Nino Rotolo, il padrino di Pagliarelli. Si era sparsa, però, la voce del tradimento di Sorrentino nei confronti del boss. Nella guerra fra il capomafia di Pagliarelli e Salvatore Lo Piccolo, lo studentino avrebbe scelto di schierarsi con il boss di San Lorenzo. Libero in zona anche Settimo Mineo, anziano boss finito in cella nell’inchiesta Gotha che iniziò a togliere l’acqua in cui sguazzava Bernardo Provenzano. Era la stessa inchiesta che coinvolse i fratelli Gaetano e Pietro Badagliacca, oggi entrambi liberi, mafiosi della zona di Mezzomonreale con forti legami con i boss trapanesi. Pietro, in particolare, aveva partecipato ad alcuni summit a Paceco ai quali non è mai stata esclusa la partecipazione di Matteo Messina Denaro. E c’era pure il nome di un altro personaggio che ha scontato la sua pena, Vincenzo Cancemi, considerato il braccio operativo di Nino Rotolo nell’edilizia, dove facevano la vice grossa i Sansone.

Quella della scadenza dei termini di custodia cautelare è una storia già vista per Sandro Capizzi di Villagrazia, figlio del capomafia Benedetto, uno degli artefici della rifondazione di Cosa nostra spazzata via dal blitz Perseo. Libero a Villagrazia è tornato anche Salvatore Adelfio, altro cognome di peso. Santa Maria di Gesù fu uno dei mandamenti maggiormente colpiti dal blitz Paesan Blues. Il Servizio centrale operativo della Polizia, la Squadra mobile di Palermo e l’Fbi smantellarono i legami fra la mafia siciliana e la Cosa nostra americana. Tra coloro che furono coinvolti nell’inchiesta hanno finito di scontare le condanne i tanti: Francesco Guercio, Gaetano Castellese, Massimo Mancino, Girolamo Rao, Giovanni Burgarello e Ignazio Traina. A breve sarà libero pure Giampaolo Corso, che con il fratello Gioacchino (la sua condanna è stata molto più pesante) avrebbe ricoperto un ruolo di primo piano nelle trame di quegli anni.

L’elenco di chi è stato scarcerato prosegue con Tonino Lo Nigro di Brancaccio. Lo avevano arrestato nel 2009 a Bagheria dopo un anno di latitanza. Nelle carte del blitz Perseo gli veniva attribuito il ruolo di reggente dello storico mandamento. I carabinieri lo sorpresero in un elegante appartamento nel popolo centro alle porte di Palermo. Tra i condannati ingiustamente all’ergastolo per la strage Borsellino e scarcerati nel 2011 c’era anche Giuseppe La Mattina, fratello di Michele citato in un paio di informative del 2014-2015 e piazzato accanto a Peppuccio Calascibetta. Il nome di La Mattina saltò fuori in occasione del blitz dei carabinieri denominato “Pedro”. Nicola Milano e Tommaso Di Giovanni, che per un periodo si sono divisi lo scettro di reggenti del mandamento, parlavano con Nino Zarcone, boss di Bagheria e oggi pentito, di alcune messe a posto. “Chi c’è in questo minuto, come sono combinati ora?, chiedeva Zarcone a Di Giovanni sul mandamento di Santa Maria di Gesù. E Di Giovanni rispondeva: “La Mattina”. Milano aggiungeva: “C’è Michele La Mattina e cosa… u faccia di… come si chiama Peppuccio”. Era il marzo 2011. Sei mesi dopo, il 19 settembre, Calascibetta, soprannominato faccia di gomma, sarebbe stato raggiunto da una raffica di proiettili mentre era a bordo di una microcarL’elenco degli scarcerati si arricchisce con altri due pezzi grossi: Giuseppe Guttadauro, medico e boss di Brancaccio, e Masino Cannella, anziano boss di Prizzi.

Guardare al passato e concentrarsi sul presente. Ecco il difficile compito degli investigatori che devono capire se e come i boss di nuovo liberi possano riprendersi il posto che hanno lasciato con un occhio alle possibili tensioni. Perché nel frattempo chi è rimasto fuori ha scalato le posizioni di potere e non è detto che voglia farsi da parte.

 

 


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