Fosse stata una fiction, ci sarebbe voluto davvero un grande sceneggiatore per scrivere i dialoghi della scena. E forse neanche un maestro avrebbe ottenuto un risultato di tale drammaticità ed efficacia. Le 38 pagine del resoconto stenografico (bozza non corretta, precisa con solerzia il sito Internet della Camera) si leggono d’un fiato. E raccontano di un giorno niente affatto ordinario nella vita delle istituzioni repubblicane. E di una in particolare, spesso accusata di essere poco più che un orpello di rara inutilità. E che invece per un giorno diventa teatro di un confronto tutt’altro che scontato, che scrive una pagina di storia nella sempre più in crisi religione laica dell’antimafia.
La scena sembra quella dell’eretico che condotto di fronte al sinedrio spiattella senza troppi complimenti la sua verità. Riducendo a suo modo a brandelli tutti o quasi i dogmi rivelati della suddetta religione. E lo fa proprio in uno dei suoi sancta sanctorum, facendo tremare le fondamenta del tempio. Che poi sarebbe la Commissione Antimafia, quella presieduta da Rosy Bindi. Che a seguito dei recenti stracci svolazzati qua e là da almeno un anno a questa parte nel fronte variegato e un tempo corazzato dell’antimafia organizzata, ha deciso – scelta invero senza precedenti – di indagare sulla stessa, sul “movimento civile dell’antimafia, per approfondirne i tratti caratteristici e individuarne anche i limiti e le contraddizioni evidenziate dai recenti fatti di cronaca”, come riassume la stessa presidente a principio di seduta di fronte all’eretico. Che risponde al nome di Salvatore Lupo, accademico siciliano di vaglia, professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università di Palermo, nonché autore di un libro, “La mafia non ha vinto”, pietra dello scandalo per l’antimafiosità doc, quello firmato con il giurista Giovanni Fiandaca, che da un lato teorizza che la famigerata trattativa se ci fu non fu reato, e dall’altro (quello ascrivibile allo stesso Lupo) sostiene che il Leviatano di Cosa nostra sia stato negli ultimi anni alquanto indebolito rispetto agli anni più bui delle stragi.
“Il punto è che la guerra, se c’è stata, è finita”, sintetizza Lupo davanti ai commissari dell’Antimafia nell’audizione del primo dicembre scorso. È questo il cuore dell’intervento dello studioso palermitano, che traccia un excursus della storia di Cosa nostra, individuando negli anni dei Corleonesi, dalla fine dei Settanta ai primi Novanta il momento in cui la mafia assume connotati di sfida militare allo Stato. Gli anni dei morti ammazzati a iosa per le strade siciliane, gli anni delle stragi, delle bombe e dei delitti eccellenti. Che sono anche gli anni in cui prende corpo, per reazione, la grande macchina dell’antimafia. Non senza qualche contraddizione di partenza. Come la pretesa di riflettersi nel vago e assai sfuggente concetto di “società civile”. Spiega Lupo: “L’antimafia, definendo se stessa società civile, riflette il senso della sua rivolta – i barbari alle porte – un’immagine forte e opportuna dal punto di vista etico-politico, però nel contempo rifiuta di considerarsi una parte e raffigura se stessa come il tutto, la società civile, mentre invece spesso questo flusso prende la forma di parti, che non si definiscono partiti, ma si definiscono movimenti”.
Dagli anni della genesi dei movimenti contro la mafia, Cosa nostra è cambiata, osserva lo storico. Invece la “società civile” antimafiosa, movimento mosso da tanti sinceri afflati civili ma anche usbergo per solide e folgoranti carriere, rimane uguale a se stessa. Anche quando, fa notare Lupo, il nemico è mutato e si è oggettivamente indebolito. “Il punto fondamentale – dice lo storico – è che la guerra è finita, quella mafia non c’è più, ce n’è un’altra, che sarà pericolosa anch’essa, ci sono altre mafie come la ’ndrangheta, ci sono tante cose che non vanno in questo bel Paese, su questo versante e su altri, però quella guerra non c’è più, mentre sul fronte dell’antimafia tutti quei soggetti sono attivi come se niente fosse successo”.
La guerra, o almeno quella guerra sanguinaria, non c’è più, insiste Lupo. Anche se, ragiona lo storico, per una certa idea di antimafia non sta bene che si dica. E così Lupo fa notare ai commissari come “non esiste alcuna possibilità di confronto tra la forza con cui la repressione si è abbattuta su Cosa nostra al passaggio tra gli anni ’80 e gli anni ’90 e con più forza ancora negli anni ’90 rispetto a quello che è avvenuto in qualsiasi altro periodo della nostra storia, e vi devo dire come siciliano che ha poche cose di cui gloriarsi, e anche come italiano, che è paradossale e frustrante che una delle poche cose conseguite in questo Paese nessuno dica che è successa e tutti sembrino rifiutarlo”.
Sì, seppur con qualche scivolone, c’è una lunga storia di colpi inflitti a Cosa nostra dallo Stato nell’ultimo ventennio, una storia che nella narrazione antimafiosa a volte appare quasi evanescente, fa notare con amarezza lo storico. Che parla di “appiattimento della nostra prospettiva storica e civile, come se dovessimo guardare sempre indietro”, evocando le vicende processuali legate alla trattativa, e punta l’indice contro una certa “aura di sacralità che non ci aiuta, perché induce a creare rendite di posizioni morali che con il realismo dei fatti e la politica, come voi che fate politica sapete, hanno poco a che vedere, e poi soprattutto rinchiudono il dibattito in barriere infrangibili”. Osa sfidare Lupo anche quell’aura di sacralità, garantita da una retorica che s’appiglia a colpo sicuro al sangue dei martiri come Paolo Borsellino. È bastata una frase assai sgradevole sui figli del magistrato intercettata in una conversazione privata a scatenare l’inferno mediatico su Silvana Saguto, un inferno mediatico che sarebbe stato assai più giustificato – anche al netto di tutte le sacrosante prudenze garantiste – dal merito delle vicende che l’inchiesta di Caltanissetta stava svelando sull’operato del magistrato che gestiva i beni confiscati ai boss, fa notare Lupo, convinto com’è che “l’antimafia è un movimento politico-istituzionale, come tale va soggetto alla critica possibile o al sostegno possibile dei cittadini, e ovviamente il futuro del Paese non è basato sull’agitare le bandierine o mettersi la casacca, ma sul fare politica buona, fare business buono e migliorare la qualità democratica e il progresso civile ed economico del nostro Paese”.
Parole che aggrediscono in certo senso più d’un dogma di quella religione le cui vestali siedono anche a San Macuto. E reagiscono in variegate forme, che riproducono ciascuno a suo modo le sfaccettature della chiesa antimafiosa.
Il primo a tuonare con indignata veemenza è Davide Mattiello, Pd, già dirigente di lungo corso di Libera, la creatura di Don Luigi Ciotti finita di recente anch’essa in un turbinio di polemiche e di stracci volati dentro e fuori dal movimento. È insomma la voce dell’antimafia dei duri e puri la prima a replicare all’eretico Lupo (e all’eretico in contumacia Fiandaca, già che ci siamo): “Voglio usare questa occasione istituzionale per dissentire ancora pubblicamente da quanto avete scritto – esordisce Mattiello –. Dissento perché un altro modo era certamente possibile, e questa convinzione è ancorata nella memoria del lavoro che Paolo Borsellino fece tra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992, quando per fermarlo dovettero ucciderlo”. Eccolo, puntuale, l’appiglio all’aura di sacralità. E a seguire un papello di buone ragioni per cui ogni ipotesi trattativista all’epoca delle stragi sarebbe stata inaccettabile, con tanto di ipse dixit denso di riverenza alle “teorie accusatorie della Dda di Palermo”.
Sì, ma il punto era un altro. E cioè, com’è che quella mafia non c’è più ma l’antimafia resta e sempre uguale a se stessa? Beppe Lumia, veterano siciliano del Pd con fama di Richelieu dell’antimafia di Palazzo (nonché alter ego dell’antimafiosissimo governatore Rosario Crocetta), la prende da lontano ma in soldoni obietta: se la mafia abbandona la tattica corleonese della sfida allo Stato per riprendere il tradizionale “cammino collusivo”, l’antimafia serve ancora. Concetto che Claudio Fava, per certi versi coscienza critica dell’antimafia politica, con piglio da intellettuale raffinato rimanda alla valutazione dello stesso Lupo: “Mi chiedo e le chiedo se la fattispecie mafiosa di questo tempo non rischi di essere molto più insidiosa”.
Insomma, bomba o non bomba, l’antimafia organizzata serve. Dice l’antimafia organizzata. Poteva essere altrimenti? Eppure Bindi, nel suo intervento sembra dare per assodata buona parte dell’impostazione di Salvatore Lupo. Tanto da domandargli: “L”aiuto che chiediamo è questo: se la mafia è cambiata e l’antimafia è rimasta quella, cosa possiamo fare e come possiamo aiutarci per adeguare i nostri strumenti alla lotta che dobbiamo fare alla mafia?”.
L’eresia è ufficialmente sdoganata. E Lupo incassa. “La presidente Bindi bene ha capito il mio ragionamento: la mafia non è più quella di allora, non è detto che quella di ora sia meno pericolosa”, replica lo storico, aggiungendo però che “di sicuro non si potrà combattere con lo stesso sistema, anche perché un movimento che si irrigidisce e tende a istituzionalizzarsi come tutte le strutture che istituzionalizzano a sua volta pone dei problemi”. E il primo dei problemi è la sua sopravvivenza. La vulgata attribuisce al vecchio boss Luciano Liggio la massima secondo la quale “Se esiste l’antimafia, esisterà pure la mafia…”. E viceversa. D’altro canto, dice Lupo, “le istituzioni straordinarie che non corrispondono alla nostra tradizione giuridica, nate in periodo di straordinarietà, uscite da quel periodo di straordinarietà hanno come primo obiettivo quello di giustificare se stesse. Mi dispiace, Max Weber diceva questo e forse non era un babbeo”. Forse.
Lupo accenna anche al tema di quelli che ritiene incroci troppo disinvolti tra l’attività di indagine delle procure e altro genere di “rivelazioni”, quando parla degli “stessi magistrati che un giorno fanno gli atti penali e il giorno dopo li volgono in libri, che possibilmente sono intitolati Io so, dove si sostiene che uno può dire le cose anche se non ha prove, non c’è bisogno di avere le prove perché so che è vero, credetemi sulla parola”. Per la cronaca il titolo è quello di un libro di Antonio Ingroia, già pm antimafia, già candidato premier, ora titolare di un incarico di sottogoverno nella Regione siciliana governata da un “campione” dell’antimafia politicizzata come Crocetta.
Il più è detto. C’è spazio ancora per un’incursione finale sullo sfuggente tema della trattativa. La cui rilevanza penale, accenna lo storico, è tutta da dimostrare. “Mentre la ricostruzione storica tende a mettere in campo milioni di persone, grandi forze impersonali, la logica giudiziaria, dovendo trovare una responsabilità individuale, segue la logica del complotto, laddove i grandi eventi storici difficilmente seguono la logica del complotto. A me – ammette Lupo – sembra che questo sia uno dei casi. Poi quando mi dimostreranno, come finora non è avvenuto, perché i processi paralleli si sono conclusi con l’assoluzione, quali reati nell’ambito di queste trattative siano stati commessi, io che rispetto le sentenze dei tribunali e non pretendo di saper giudicare meglio dei giudici ne prenderò atto”.
È il momento dei titoli di coda. Con tanto di “to be continued” firmato Bindi. “Forse bisognerebbe anche dire che ci sono fatti storici che possono essere analizzati per trovare delle responsabilità politiche piuttosto che dei reati – chiosa con buon senso la presidente, ringraziando Lupo –. Il rischio è che, cercando dei reati, se non ci sono si finisca per assolvere anche responsabilità politiche che forse andrebbero individuate e che prescindono dai reati. Questo è il punto. Forse la sede per l’accertamento di quelle responsabilità non è un tribunale, ma è una sede politica. Quando il processo si concluderà, la Commissione antimafia del futuro potrà fare questo lavoro”. Il percorso di riqualificazione professionale è insomma tracciato: l’antimafia del domani, nella peggiore delle ipotesi, non resterà disoccupata per i prossimi vent’anni.