Venti anni dopo - Live Sicilia

Venti anni dopo

Vent'anni dopo ricordiamo la strage di Capaci. Con uno slogan che dice tutto. Capaci di cambiare.

Speciale Falcone
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E’ impossibile celebrare il ventennale della strage di Capaci senza retorica e lacrime di circostanza. La retorica è l’adipe dell’affetto, il male necessario della memoria, lo spazio bianco tra le parole “Io ricordo”.

L’intelligenza del cuore consiglia di non buttare a mare il di più, per non disperdere il resto. Se getti l’ornamento del lutto, alla fine non resta nemmeno il volto contratto dallo spasimo. E tutto si smarrisce, nel bene e nel male. Ci vuole un cesello discreto, una sottrazione delicata, per isolare la sostanza dal contorno, per vivere una nuova e lucida comprensione delle cose. Si può cominciare dai sentimenti. Dai residui che ciascuno conserva di quel 23 maggio. La storia della grande mattanza dell’autostrada si è inscritta a sangue nella biografia delle persone comuni. La bomba è esplosa nel tessuto corale di una città e di una Regione. Ma ha mutato il profilo dei siciliani, come una cattiva pietra, un inciampo colossale.

Nessuno di noi si è più riconosciuto nel solito specchio dopo la tremenda estate del Novantadue. E non c’è mai più stato un solito specchio, né uno sguardo consueto. Nella nostra esperienza si è inserita una fragilità che non somigliava a nulla di ciò che avevamo sperimentato prima. Non c’era mai stata la tragedia di Capaci, né era apparsa una misura che la avvicinasse, in deflagrazione reale e simbolica. Ricordare è un bene. Risentire i battiti di vent’anni fa. Reinserirsi nella pelle di una volta. Rimettere insieme i pezzetti di una vita passata e tentare ancora il salto dell’immedesimazione verso la voragine che inghiottì Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Poi c’è il diritto-dovere alla conoscenza e alla riflessione. La richiesta di verità che non ammette patteggiamenti. Fermarsi al dato emotivo sarebbe una mossa naturale e incompleta. Chi intende limitarsi al rito del dolore, per rinunciare alla luce definitiva sugli avvenimenti del Novantadue, mente a se stesso. Non è credibile nel ruolo di alfiere della lezione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un ammaestramento che non tollera compromessi.

Non è un anniversario per vecchi. Il dato anagrafico non c’entra. Vecchio, nelle categorie della verità, è chi si rassegna al canovaccio prestabilito. Chi non cerca e si accontenta della penombra. Ecco perché già amiamo i bambini che oggi invaderanno Palermo. I piccoli sono la vittima preferita della retorica, dell’adipe di coloro che ne parlano solo in chiave futura. Eppure rappresentano la speranza presente. Cos’è un bambino, se non un uomo che ha voglia di cambiare?


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