I due divani - Live Sicilia

I due divani

Allora, quando ancora gli uomini non avevano inventato l’ecologia, un vecchio divano poteva rinascere tra le mani di un bravo artigiano...

Sono qui, seduto alla guida della mia automobile. La luce rossa del semaforo s’è appena accesa e mi devo fermare prima della striscia bianca. Nello specchietto retrovisore si materializza la figura di un ossesso che urla e si dimena pur essendo solo nell’auto che mi segue. Ma cosa avrò fatto mai di male ? Persino qui a Palermo al rosso ci si ferma. Avendo cura di non farmi notare, aguzzo la vista e scorgo un auricolare attraverso cui l’ossesso litiga con qualcuno. Ah, allora esistono anche qui gli auricolari per parlare al cellulare mentre si guida. Ah, allora c’è qualcuno che ha pensato di portarli nella città in cui pare che l’unica infrazione da punire sia l’eccesso di velocità nelle poche strade in cui, qualche volta, si procede. Mentre rivaluto l’ossesso, giro il volto verso destra. I miei occhi si scontrano con la catasta di immondizia che circonda i cassonetti allineati in qualche modo sul bordo del marciapiede. Scorgo un triciclo arrugginito. Chissà, forse le gambette incerte che hanno spinto su quei pedali sono ormai le solide colonne portanti di un uomo fatto. Più in là, due vecchi divani si affrontano l’un l’altro dal lato della seduta, proprio come fossero ancora nel soggiorno dei loro ricordi. Mi sembra di percepirne il bisbiglio amaro. Abbasso il volume dell’autoradio per ascoltarli.

Inizia il Tre-posti: “E così, vecchio mio, ci hanno gettato qui. Dopo tutte quelle discussioni con Lei che diceva di vergognarsi a farci vedere dalle amiche, Lui ha ceduto. Proprio un bel modo di festeggiare il loro anniversario di nozze”. Ribatte l’altro, il Due-posti: “Quante volte abbiamo tremato negli ultimi tempi quando ascoltavamo alla televisione quell’orribile pubblicità con quella balla sulla supervalutazione dell’usato. Lo dicevo io che questa volta non ci avrebbero riportato dal vecchio tappezziere dagli occhiali spessi. Eppure, non m’aspettavo proprio che ci affidassero a quei due tipi loschi”. “Maledetti – ribatte il Tre-posti facendo sobbalzare d’ira le molle arrugginite – e cosa potevi aspettarti di buono da due tipi come quelli con quei tatuaggi ben in vista sotto la canottiera e il loro strano accento pieno di vocali così diverso da quello dei signori della TV ? Ci hanno caricati su qual trabiccolo a tre ruote con l’asso di mazze davanti e la scritta “Dio solo è grande” dietro. Ci hanno serrato i braccioli con quelle corde strette e poi ci hanno abbandonato qui. Noi, che poggiavamo i piedi sul parquet nel soggiorno deodorato al mughetto, adesso accogliamo branchi di mosche e gatti randagi in questo fetore insopportabile”.

Mi sembra di scorgere qualche macchia d’umido sulla tappezzeria lisa del più piccolo. Chissà, forse saranno lacrime visto che non piove. Ascolto ancora: “Cosa abbiamo fatto di male per meritare questa fine ? Noi che abbiamo servito fedelmente i padroni e i loro ospiti sopportando il loro peso e la puzza dei loro piedi e delle loro flatulenze. Noi che abbiamo penato per i loro litigi e pregato affinché in soggiorno tornasse presto la pace”. “Ricordi – ribatte il Tre-posti – quando Lui e Lei, dopo tutte quelle discussioni sulla stoffa, ci accolsero nella nuova casa ch’eravamo appena usciti dalla bottega del tappezziere ? Allora, quando ancora gli uomini non avevano inventato l’ecologia, un vecchio divano poteva rinascere tra le mani di un bravo artigiano. Erano così giovani e felici quando arrivammo in casa tutti rifatti come una velina appena uscita dallo studio del chirurgo estetico. Ricordi quante notti insonni ad ascoltare ninne-nanne quando arrivò la Signorina che non ne voleva sapere di dormire ? E l’odore del caffé nelle notti prima degli esami ? E le partite di calcio, quando le nostre molle sobbalzavano per i salti di gioia e i nostri cuscini, dopo la stretta di cento pizzicotti, assorbivano lacrime di delusione? Quanti abbracci abbiamo accolto nel morbido della nostra gommapiuma. Quanti “Scusa” e quanti “Non ne posso più” abbiamo ascoltato accanto al vecchio amico abat-jour. Noi, che siamo parte della storia di famiglia, siamo stati soppiantati da quei due novellini costruiti chissà dove. E adesso siamo solo rifiuti. Superflui e anonimi, come una scorza d’anguria risparmiata dai morsi”.

Il suono di un clacson mi riporta alla realtà. L’ossesso ricomincia a dimenarsi nello specchietto. Questa volta ce l’ha proprio con me che non mi smuovo anche se il semaforo è tornato verde. Devo andare. Saluto con lo sguardo i due vecchi divani. “Buona fortuna, amici. E che il dio delle discariche, entità suprema della schizofrenia ecologica di noi umani, vi accompagni”.

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