I sette peccati capitali | del web - Live Sicilia

I sette peccati capitali | del web

Con l’avvento di internet e soprattutto dei social network, ci si è ritrovati di fronte ad una serie di nuovi “peccati” che generano problematiche legali difficili da affrontare.

Il siciliano è per vocazione l’idealtipo della rete. Il mese scorso, dopo il grande successo dell’edizione del 2013 del programma di eventi nazionali rivolti alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale nazionale attraverso i social media, si sono rinnovate a Palermo le “Invasioni Digitali”. Il Teatro Massimo, luogo protagonista dell’evento riservato a tutti i possessori di smartphone o tablet, è stato assalito al grido di #invadoilMassimo dalla cittadinanza che, nel corso delle visite guidate di platea, palco reale, palcoscenico e della mostra “Mozart al Massimo”, che espone bozzetti, figurini, costumi e attrezzi teatrali, ha potuto condividere i post su Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest e Youtube, utilizzando l’hashtag #invadoilMassimo e #invasionidigitali. I contenuti realizzati sono stati aggregati sul portale www.invasionidigitali.it, con grande soddisfazione del “popolo digitale”.

Restiamo nell’evocato ambiente teatrale per una incursione nel passato. Nel 1933, a Parigi, fu messo in scena il balletto cantato che costituì l’ultima collaborazione tra due esuli illustri, Kurt Weill e Bertolt Brecht. L’inconsueta lista brechtiana de “I sette peccati capitali dei piccoli borghesi” li illustrava, in modo critico, come altrettanti ostacoli al successo. Così la protagonista dalla doppia personalità, Anna I, che vorrebbe seguire gli impulsi naturali, nel contempo Anna II, proiezione della coscienza piccolo-borghese che li reprime pur di far fortuna, compie attraverso tante città (e tanti peccati) un faticoso percorso; tornerà a casa, perduta la giovinezza, con un sudato peculio.

Questa metafora del comportamento dell’uomo novecentesco appare di grande attualità. Oggi come ieri, il peccato lo si commette quando si va contro coscienza, e non solo infrangendo i grandi divieti come non rubare, o non uccidere. Con l’avvento di internet e soprattutto dei social network, ci si è ritrovati di fronte ad una serie di nuovi “peccati” che, a parte le conseguenze nefaste per i danneggiati, generano problematiche legali difficili da affrontare. La forza comunicativa degli strumenti mediatici ha sicuramente aspetti positivi, ma l’impossibilità del controllo sulle notizie divulgate via internet consente a qualsiasi soggetto di compiere atti diffamatori e lesivi con una facilità prima sconosciuta, magari solo per realizzare una personale scalata al successo ai danni di qualcun altro, producendo spesso devastazioni di lunga durata; quanto più è facile fare terra bruciata attorno alla vittima di turno, tanto più per questa è difficile, specie se ignara, difendersi.

Era il 6 marzo del 2007 quando, nel discorso di apertura della Conferenza Internazionale dell’Unione Interparlamentare, Stefano Rodotà, nell’interrogarsi pubblicamente su quale fosse il destino dei parlamenti nell’era della comunicazione, preconizzava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Sullo sfondo dell’agorà elettronica si delineavano già i sette peccati dell’età digitale: diseguaglianza; abusi informativi; rischi per la privacy; disintegrazione delle comunità; plebisciti istantanei con dissoluzione della democrazia; tirannia di chi controlla gli accessi; perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale.

Al di là dei massimi sistemi, nel quotidiano i peccati capitali possono essere di varia tipologia; anzitutto, quelli riconducibili a comportamenti tecnologici sbagliati, che derivano dalla gestione poco corretta, più che dei comportamenti sul piano umano, dei nuovi sistemi. L’immediata punizione è il danno di ritorno che colpisce i “peccatori”, privati o aziende che siano. In tempi recenti alcuni attacchi cibernetici, sferrati con metodi particolarmente sofisticati, hanno reso possibile l’individuazione, con riguardo alla tutela degli internauti, dei “vizi” della rete. Un report di Verizon, “Data Breach Investigations”, ha rilevato le carenze nelle misure minime di sicurezza sul web. Il 78% delle intrusioni accertate sono state classificate di bassa difficoltà, e sono stati evidenziati i sette peccati capitali che si compiono in rete.

Primo. Sistemi non aggiornati: Secondo, password debole (sembra incredibile, ma c’è ancora chi usa come password il proprio nome!) o riutilizzo della stessa per diversi account. Terzo: personale non addestrato. Quarto: mancanza di misure di sicurezza rispetto al cloud (per cloud computing, ovvero “nuvola informatica”, si intende l’insieme di tecnologie che permettono di memorizzare, archiviare o elaborare dati). Quinto: caos riguardo ai dispositivi mobili. Poiché ormai il perimetro aziendale ha confini nebulosi, smartphone, tablet e altri dispositivi personali forniscono numerose opportunità aggiuntive agli hacker.

Sesto: l’attuale ossessione per i social. L’enorme quantità di utenti, e di informazioni postate, genera un altrettanto ingente volume di opportunità di utilizzare apposite tecniche al fine di ottenere l’accesso ad account individuali e aziendali. Settimo: carenza di inventariazione e catalogazione degli asset aziendali e inadeguati controlli di accesso. Poiché a ogni peccato, se ci si ravvede, dovrebbe seguire la confessione e, nell’ordine, il pentimento e la riparazione, qualora ci si riconoscesse in queste sette tipologie di vizi capitali contro la sicurezza, non rimane che confessarsi, pentirsi e provvedere al più presto, onde evitare le pene dell’inferno sulla terra.

Vi è poi un’altra grande categoria di web-peccati, in modo più evidente riconducibili alla tipologia teologica, sulla base dei quali si può delineare il profilo dei peccatori. Nessuno è indenne. Se tempo fa era elegante immaginarsi in una torre d’avorio e disquisire dei social network solamente in termini di rischi e minacce, è finalmente chiaro che, in realtà, li usano proprio tutti. E che sette tipi di peccatori capitali imperversano sul web. Il superbo, più che leggere i post degli altri adora rileggere i propri. Cambia la foto del profilo ogni due giorni per ottenere “like” a tempesta. Esibisce (spesso immaginarie) frequentazioni con vip (“@bradpitt, a quando una cenetta a quattro, you and me, Angelina and la Cicci?”) e gratifica il popolo della rete con le sue riflessioni narcisistiche (“questa immagine è stupenda”) anche se il soggetto non è la porta di Ishtar ma lui stesso.

L’avaro. Non condivide le proprie informazioni ma tesaurizza quelle degli altri. Spesso sotto falso account, questo voyeur imbucato si informa su tutto e non interagisce per non scoprirsi; purtroppo per lui (ma per fortuna degli amici) ogni tanto la voglia di fare uno scoop, commentando nel mondo reale cosa facesse il tale quel giorno e a quell’ora, lo smaschera clamorosamente. L’invidioso è sempre a rischio di auto-cancellazione, perché vedere quanto gli altri si divertano sui social lo fa star male. La continua autopromozione degli amici lo manda ai matti; prova a inserirsi, a commentare, ma non va al di là di qualche grugnito virtuale. Meglio così, perché se compone un commento, è del tipo “ma che stai blaterando?” o “notizia vecchia e stantia!”.

L’iracondo. In guerra (virtuale, per fortuna) contro tutti: ci si chiede come vivesse prima dell’avvento dei social. Forse era un serial killer? Intanto propone a Facebook di inserire anche il “dislike”: ma quegli idioti sono troppo impegnati a catturare adepti piuttosto che prendere in considerazione le troppe cose che lo rendono furioso! Il lussurioso. Uau. Come gli piacciono i profili delle possibili amiche! Che vaglia accuratamente prima di inviare o accettare richieste di amicizia. Poco conta che novantaseienni a caccia si celino dietro la foto di Brenda Asnicar! L’accidioso. Il social network è la culla ove vegeta libero e felice tante ore al giorno. Col fastidio, in effetti, di dover cliccare… ma con la speranza che presto inventino i social-occhiali a scorrimento pupillare dello schermo. Mette a stento un like, non ritwitta e non trova la forza per pubblicare un post. D’altra parte, perché è così bello essere sui social network? Perché non fai fatica a uscire, parlare etc.

Il goloso. Divora informazioni e prova un senso di fame già qualche minuto dopo aver spento il computer o aver dovuto rinunciare a tenere in mano lo smartphone. E’ il più felice dei peccatori della rete: fagocita ogni genere di informazione, ha migliaia di amici e di followers, colleziona “preferiti” per riguardarli anche la notte. E’ un teorico della “svolta” che i social hanno dato alla vita di tutti sconfiggendo per sempre la solitudine e, soprattutto, saziando la sua brama di notizie. Ma, detto con parole nostre, quali sono i comportamenti inappropriati che fanno scattare l’insindacabile giudizio del pubblico dei social, talvolta persino la sua ira funesta? Che provocano la “selezione dal basso”, nel senso che determinano l’eliminazione dei molesti da parte degli utenti, che li segnalano come spam nei casi più estremi, o semplicemente decidono di non seguirli più privandoli di pubblico e di visibilità?

Stavolta sul piano oggettivo, ecco i sette social-vizi. Superbia. Con l’insostenibile leggerezza del sentirsi superiori, fare gli splendidi e non solo vantarsi del proprio numero di followers, ma disprezzare al grido di “non sei nessuno” quelli che ne hanno pochi. Pratica ostentata dai nostri politici. Avarizia. Scarsa disponibilità a spendere e a donare, e, per di più, brama di vendersi. Prima o poi si azzera lo scambio: il social è una piazza, non un mercato. Lussuria. L’incontenibile desiderio di piacere che induce a “provarci” (un tempo si diceva “purchè respiri”) con qualsiasi cosa si muova sul web. A rischio di incoraggiare chi non ha alcun bisogno di incoraggiamento, talvolta si porta a casa il risultato. Invidia. Provare tanta tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio. Farebbe ridere se ogni tanto non si sperimentassero sulla propria pelle i denti aguzzi dei “rosiconi”. Gola. Ingordigia di attenzioni, di followers, di like, di condivisioni. Diffusa e, se anche camuffata da velleità intellettuali, facilmente riconoscibile. Ira. L’irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito che si traduce nel pretesto per dare addosso a chiunque.

Provare per vedere come si diventa subito amati e popolari. Accidia. Il malinconico torpore, quell’inerzia nel vivere (e anche nel fare un soldo di bene) che induce a usare i mezzi di comunicazione per comunicare di non aver nulla da comunicare. Se si tace si fa più figura. In buona sostanza, se tendi a dire sciocchezze, se ostenti qualcosa che non hai, se millanti quello che non sei, prima o poi qualcuno se ne accorge. Gli utenti che partecipano (pure troppo) ai social, li hanno resi un contesto virtuale incredibilmente meritocratico, anche se gli italiani a questo proprio non sono abituati. Occorre invece tenerne conto e avere fede. Perché la rete è ricca di tentazioni; è quell’inferno lastricato di buone intenzioni, quel cactus sul quale si è saltati pensando, all’inizio, che fosse una buona idea. Tuttavia, chi ha l’umiltà, e l’acume, di riconoscersi peccatore, sa di poter contare sul perdono mediatico, anche se oggigiorno essere tra i followers di Colui che raccomandava di perdonare settanta volte sette è davvero arduo. Internauta avvisato, mezzo salvato, dunque; se il tasto sinistro del mouse ti offende, strappane il filo. E, dulcis in fundo, se errare è umano, perseverare è diabolico.


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