Il coraggio di Valeria, lasciata sola - Live Sicilia

Il coraggio di Valeria, lasciata sola

di NICOLA BIONDO Se ne è andata via da Palermo come un latitante arrestato, circondata da uomini armati, verso una destinazione sconosciuta e un altro futuro. Solo che Valeria Grasso non è un mafioso ma un’imprenditrice palermitana che i mafiosi li ha denunciati e fatti condannare. Da venerdì scorso è sotto protezione, con i suoi figli, lontana dalla sua terra, dal suo lavoro, dalle minacce che negli ultimi tempi si erano susseguite. È questo l’epilogo di una storia che non odora solo di paura ma soprattutto di solitudine.
La storia
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di NICOLA BIONDO
Se ne è andata via da Palermo come un latitante arrestato,
circondata da uomini armati, verso una destinazione sconosciuta e un altro futuro. Solo che Valeria Grasso non è un mafioso ma un’imprenditrice palermitana che i mafiosi li ha denunciati e fatti condannare. Da venerdì scorso è sotto protezione, con i suoi figli, lontana dalla sua terra, dal suo lavoro, dalle minacce che negli ultimi tempi si erano susseguite. È questo l’epilogo di una storia che non odora solo di paura, ma soprattutto di solitudine.
Valeria l’aveva resa pubblica nel febbraio scorso: il racconto partiva dai suoi aguzzini, il clan Madonia, la crème della Palermo mafiosa, e finiva alla Palermo dei salotti antimafia. Due città all’apparenza così diverse ma dalle quali Valeria era stata ugualmente colpita, umiliata e offesa.

A quarant’anni Valeria Grasso ha conosciuto le due facce della città: quella che costruisce il benessere sul pizzo, la droga, la violenza  e quella che sul lavoro encomiabile di centinaia di attivisti si arroga il diritto di sentirsi e proclamarsi l’unica antimafia possibile. Dalla prima, Valeria si è difesa, ribellandosi e denunciandola. Dall’altra Palermo, che lei si aspettava solidale, non ha ricevuto protezione anzi è stata, espulsa subendo l’atteggiamento più disgustoso: quello che nega alla persona offesa lo status di vittima.
Da questa Palermo Valeria è stata lasciata così sola che davanti alle assurde mancanze della burocrazia statale che le negava i suoi diritti, si è vista costretta, lo scorso dicembre, ad incatenarsi di fronte al Ministero degli Interni. “Rifarei tutto – diceva mentre le catene le stringevano i polsi e il cuore – ma lo Stato non sempre aiuta le vittime della mafia”.  E ne aveva ben ragione a dirlo se era lo Stato che non si occupava, pur essendone proprietario, della manutenzione del locale confiscato ai Madonia, dove Valeria gestiva la sua palestra. Una mancanza che costringeva l’imprenditrice a tenere chiusa l’attività anche dopo aver denunciato il racket. Della serie: dove non arriva la violenza mafiosa, ecco l’ottusa incapacità della burocrazia. Quella protesta così eclatante servì. Lo Stato le riconobbe i suoi diritti: un minimo di protezione, per sé e la sua famiglia, e la possibilità di riaprire la sua attività. Vinta la guerra con la Palermo dei “cattivi”, c’era un’altra città con cui fare i conti, quella dei “buoni”. Quella che dà le patenti di santo o di diavolo, di vittima e di carnefice. E quella di vittima, l’antimafia “perbene”a Valeria non la voleva proprio dare.

Quella solitudine patita da chi la doveva proteggere costrinse Valeria a svelare ancora una volta l’ultima brutale verità. “Addio Pizzo si è costituita parte civile nel mio processo contro i mafiosi, ha ottenuto un cospicuo risarcimento e mi ha aiutata a riaprire un conto corrente. Poi sono spariti, non hanno più risposto alle mie mail e non hanno mai inserito la mia aziende tra quelle antiracket, né hanno fatto nulla affinché riaprissi la mia attività”. Per anni Valeria vive nella terra di nessuno: tra i Madonia e le loro minacce e le assenze dello Stato e delle associazioni. Chiede aiuto e conforto a Sonia Alfano come presidente dell’associazione Vittime delle mafie. Ma continua a chiedersi perché è stata abbandonata da chi invece avrebbe dovuto sostenerla. “A gennaio 2011 finalmente riapro la mia palestra. Vorrei che fosse vista come una vittoria di tutti, nonostante tutto. E provo a contattare Addio Pizzo e Libero Futuro per invitarli alla festa di riapertura”. È così che la Grasso viene a conoscenza delle sue “colpe”: “L’avvocato Forello mi dice che loro non avevano niente di particolare con me, ma la mia condotta non era in linea con il loro modo di agire. Si intende il fatto che nelle mie interviste non ho evidenziato quello che loro hanno fatto per me; non c’era niente da pubblicizzare però, anzi ho evitato di raccontare le loro mancanze. E in ultimo che le mie scelte politiche non sono attinenti a quelle che sono le loro visioni politiche. Posso immaginare si riferissero a Sonia Alfano”.

Quando la denuncia della Grasso diventa pubblica ecco che arriva l’ultimo strale. A lanciarlo è il presidente di Libero Futuro, Enrico Colajanni: “Valeria Grasso fa un uso spregiudicato della sua immagine… Non credo ci sia nemmeno motivo di sollevare un polverone, perché sarebbe inutile e dannoso, soprattutto per l’immagine della signora”. La Grasso, per Colajanni, non è una vittima ma qualcos’altro. Forse una mitomane, un’esibizionista, una in cerca di soldi e visibilità. Colajanni ovviamente non lo esplicita, lascia che quel giudizio galleggi come un rifiuto nel mare in attesa che qualcuno lo raccolga. Un’arma in più nelle mani dei suoi aguzzini che continuano a minacciare l’imprenditrice. Fino a venerdì, quando invece una parola di chiarezza la scrive la Procura di Palermo che ritiene Valeria Grasso una testimone di giustizia pienamente attendibile e ad imminente rischio di vita, decidendo per lei e la sua famiglia l’entrata nel sistema di protezione e il trasferimento fuori dalla Sicilia. E alla fine della fiera, che vede ancora una volta sconfitta la logica e la giustizia, rimangono due sole domande. Chi ha ragione, nella città degli ipocriti, il signor Colajanni o la procura di Palermo? E quante Valeria Grasso ci sono ancora, a Palermo, in Sicilia, piegate oltre che dal pizzo dei “cattivi”, dalle certezze dei “buoni”?


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