Il povero, il migrante, lo schiavo | Siamo una cattiva madre - Live Sicilia

Il povero, il migrante, lo schiavo | Siamo una cattiva madre

Siamo tutti in cammino. Siamo tutti richiedenti asilo.

Se ci fosse consentito di guardare nell’anima di un uomo vi troveremmo la memoria del suo primo sorriso. Se ci fosse consentito questo, sentiremmo il dovere di recuperare quest’inviolabile gioia. Per noi stessi, per gli altri.

Per una spontanea inclinazione verso la felicità siamo in viaggio con remi di gesti verso porti desiderati, perfino inconfessabili. Ci spinge semplicemente il talento della coscienza di vivere, una concreta piccola grandezza che ci abita.

Questa disperata vitalità dei mortali, che Cesare Pavese descrive nei suoi Dialoghi con Leucò, capace di fare invidia perfino agli dei, ritengo sia la prima qualità dell’essere umano.

Siamo tutti in cammino. Con la sorte sulle spalle sconfessiamo la morte, talvolta sfidandola.

Per struttura stranieri nei confronti dell’altro, incontriamo il limite dell’alterità, una frontiera in cui ci viene chiesto il passaporto della nostra stessa umanità.

Ogni vita appare senza salvezza se, quotidianamente, non rifondiamo una patria in cui sia possibile seminare il valore dell’affidamento.

Nessuno è tanto forte, tanto sicuro da essere cittadino di se stesso: in qualche modo, siamo tutti richiedenti asilo in questo mondo.

Lo sapevano i greci che, per primi, tradussero questo valore in una parola componendo il sostantivo sylon con cui si indicava qualsiasi tipo di offesa arrecata a cose o a persone e a cui anteposero la particella privativa ‘a’. E crearono il themenos, un luogo simbolico al riparo del sacro, sotto le colonne dei templi, in cui potevano custodire beni ritenuti intoccabili come il tesoro della polis o persone che vi si riparavano nella speranza di potere ottenere immunità o una vita migliore come nel caso di uno schiavo che pretendeva un padrone più benevolo.

Seppure il diritto d’asilo ha conosciuto una progressiva espansione giuridica, aderendo al concetto di sovranità statale, la sua mancata concessione non può considerarsi, ad oggi, un illecito internazionale, né può ritenersi esistente un vero e proprio obbligo di accoglienza.

Ciascuno stato ha cucito un proprio modello e, ben sappiamo, che la Costituzione italiana lo ha inserito fra i primi dodici articoli del diritti fondamentali.

Eppure, siamo lontani dalla realizzazione di un’Europa dei popoli, spesso oggetto di buone intenzioni, oggi sepolte dalla crisi finanziaria e dall’egoismo nazionale. E la nostra Italia, ancorata ancora allo ius sanguinis, quale criterio di acquisizione della cittadinanza, nonostante l’attenzione dei padri costituenti, rimane uno dei paesi più arretrati in Europa.

Seppure già Kant, nel formulare il diritto di visita ci avverte che l’ospitalità è un diritto spettante ad uno straniero di non essere trattato ostilmente a cagione del suo arrivo sul territorio altrui e che può essere allontanato solo se questo può farsi senza suo danno, la nostra normativa affida sostanzialmente ai datori di lavoro il diritto di decidere chi può ricevere il permesso di risiedere in Italia.

La natura di questa concessione è sempre revocabile, anche per gli emigrati di seconda generazione nati e vissuti in Italia.

Ma anche nei confronti di coloro a cui abbiamo concesso la grazia della nostra terra, permangono condizioni legate al pregiudizio della diversità.

Nel riparo dei minori, ad esempio, notiamo una differenza sostanziale. Per i ragazzi autoctoni s’invoca la famiglia come rimedio, anche se disastrata, mentre per i migranti minori sembrano più adeguati sistemi alternativi di presa a carico.

Così nella concezione comune, le famiglie immigrate sembrano non essere uguali alle nostre: non possono essere aperte, progressiste, arcobaleno. I migranti devono essere sposati in coppie monogamiche di sesso diverso e avere figli naturali e regolari.

Chi è, oggi, lo straniero a cui diciamo no, verso cui compiamo l’atto di superbia più grave, ossia quello di non riconoscere il suo dolore e, in esso, la sua umanità?

L’esilio del migrante non interessa quanto il suo asilo.

La loro sofferenza non viene considerata, apprezzata come se approdare in un altro Paese sia già un’importante conquista, una nostra concessione particolare a loro favore.

Il migrante è un povero che allatta dalle mammelle aride della madre putativa che lo chiama figlio per scherno. Noialtri l’avevamo, la madre, ce la rubarono; aveva le mammelle a fontana di latte e ci bevvero tutti, ora ci sputano. Ci restò la voce di lei, la cadenza, la nota bassa del suono e del lamento: queste non ce le possono rubare. Ma restiamo poveri e orfani lo stesso.

Così Ignazio Buttitta descrive la condizione di coloro che si trovano in altra terra che non sa essere madre.

Siamo semplicemente una cattiva madre dalle braccia riparate sul petto di ciò che chiamiamo difesa dell’identità, ossia di un patrimonio che temiamo di perdere per l’inquinante presenza di altre identità che, in quest’accezione, mostra il suo volto più pericoloso e meno rispettabile.

Non indica la stratificazione culturale nata dalle contaminazioni dei popoli che hanno trovato patria in una terra, ma un concetto rigido che rende l’identità assassina, come diceva Amartya Sen.

Ce lo precisa Primo Levi in ‘Se questo è un uomo’:

A molti individui o popoli può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero sia un nemico. Perlopiù questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente, si manifesta solo in atti saltuari e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora il termine della catena è il Lager.

Possiamo pensare dunque ad un lager anche come un luogo ordinario, abitato dalle nostre coscienze, ormai defraudate dalla complessità che compone l’identità personale o statale, capace di eludere perfino il rispetto del diritto alla vita.

Ma quali vite non sono degne di essere garantite e verso cui nasce quel senso di disgusto, ossia un’emozione viscerale di rifiuto, di cui parla Marta Nussbaum nel suo saggio ‘Il disgusto e l’umanità’?

Da quali popoli ci riteniamo contaminati fino al punto da sentire di essere infettati credendo che, in qualche modo, l’altro penetri nel nostro sé?

Il disgusto proiettivo che la società contemporanea insegna ai suoi membri sembra determinato non più da norme sociali quanto dalla tirannia del capitalismo che identifica nel povero il diverso, colui contro il quale è possibile attivare un meccanismo di rifiuto producendo, conseguentemente, un meccanismo di subordinazione fino alla schiavitù.

Perché non sviluppiamo lo stesso disgusto verso i popoli ricchi consentendo loro una colonizzazione territoriale senza difese? Perché il sushi è tanto diffuso nella nostra cultura culinaria e non così i cibi della tradizione africana? Sembra si tratti non solo di scelte politiche, governate in qualche modo da ideologie sovraniste o nazionaliste, ma da interessi squisitamente legati ai gradi flussi monetari della globalizzazione.

L’essenza autentica del problema è la tavola da non apparecchiare per gli ultimi della terra.

Non può certamente considerarsi democratico un paese che se accoglie il povero assai spesso lo riduce in manodopera schiavile o, peggio, intrappolato in un sistema inumano dove ogni dea che ricorda in qualche modo la speranza viene resa cieca.

La domanda si è posta per la democrazia ateniese all’età di Pericle e continua a porsi anche nella società di massa in cui sui comportamenti collettivi possono agire manipolazioni e suggestioni capaci di orientare gli esiti.

Cosa può fare oggi un intellettuale la cui voce s’adombra nel deserto di una convulsa comunicazione capace di spegnere proditoriamente le sue voci critiche e vive?

L’aiuto viene sempre dai maestri.

Camus nel discorso che tenne quando ricevette il premio Nobel confessò il fallimento dell’ideologia nichilista: alla mancanza di speranza che segnò il percorso di tanti allora giovani come me, dichiarò di opporre all’ingiustizia metafisica la giustizia umana.

Mi sono occupata di letteratura civile. E, in fondo, dell’essere straniero ho scritto sulla scia del dissenso, in qualche modo.

Ma non è sufficiente apporre una firma generica sotto il dolore degli altri. Bisogna alzare la voce della coscienza, rendere più vivo l’inchiostro, dare visibilità a quest’umanità sofferente che, da sola, diventa moltitudine senza nome.

Questo ignorare i loro occhi, la loro pelle, le loro mani è causa del loro patire e del nostro silenzio.

Se potessimo dare un volto a tutti i figli morti in mare, a coloro che sono ridotti in schiavitù, a tutti i bambini a cui è stata negata l’infanzia, se potessimo chiamarli per nome, uno per uno, ci accorgeremmo qual è l’identità che va cercata, accolta e riparata.

Risulta oggi indispensabile rifondare il concetto di ospitalità non come prodotto della coscienza umana o della società civile, frutto di istanze filantropiche, ma come un diritto, da sempre inscritto nella struttura stessa dell’uomo.

Abbiamo tutti, in pari modo, il possesso della terra che, essendo sferica, sembra naturalmente predisposta all’incontro: il cammino dell’uomo volge necessariamente verso la convivenza e l’integrazione.

Possiamo colonizzare, imporre il dominio del più forte sul più debole, sfruttare le risorse di paesi poverissimi, ma la via della conciliazione tra forme culturali diverse sarà sempre il risultato ultimo a cui pervenire, per natura o per necessità.

La miseria che spinge il migrante ad allontanarsi non è naturale, né è dovuta solo a scarse risorse, ma ad una condizione di vita dolorosa che lo induce a sfidare il mare e la morte.

I migranti di oggi non lasciano le proprie terre come coloni desiderosi di predare i territori altrui; sono anche rappresentanti di antichi popoli barbaricamente colonizzati dal vecchio Continente, la parte storicamente lucente e integra del mondo.

Occorre respingere dai porti delle nostre coscienze le insidiose ondate sovraniste, le logiche dei muri, i tweet del ‘Prima gli italiani’ e ogni rivendicazione identitaria che muta la terra in frontiera.

Possono le mani stringere più di un pugno di grano? Abbiamo in noi stessi la misura del giusto: il limite, la pienezza. Se ingombriamo le dita oltre necessità, la nostra voracità consolidata in diritto, può far diventare straniero perfino un figlio.


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