In memoria di Fia, morto in strada - Live Sicilia

In memoria di Fia, morto in strada

Fia (foto di MIchele Levantino)

E' morto un uomo. I giornali l'hanno definito “Il senzatetto assiderato”. Aveva un nome proprio. Si chiamava Fia. Nome tenero e musicale. Di una gentile musica era intessuta tutta la sua vita.

PALERMO– Alcuni mazzi di fiori che una mano pietosa pose. Cianfrusaglie. Scatole. Un guanto blu con cui hanno toccato il corpo. Croccantini per cani. Pane spezzato. Coperte annerite. Plastica. Sporcizia. Un piccolo fiore rosso sul selciato. Sono le tracce del passaggio di un uomo morto a Palermo, la scorsa notte, davanti alla porta chiusa dell’hotel Ponte, in piazza Tredici vittime. I giornali l’hanno definito “Il senzatetto assiderato”. Aveva un nome proprio. Si chiamava Fia. Nome tenero e musicale. Di una calda e gentile musica era intessuta tutta la sua vita.

Giuseppe Li Vigni è un’ombra buona. Con altre ombre buone – ‘Gli Angeli della notte – da tre anni batte in lungo e in largo la disperazione di Palermo per alleviare la sofferenza di chi ha stabilito la sua dimora sul marciapiede. Con i suoi volontari Giuseppe agisce per la riduzione del danno. Senza la sua opera, per fortuna non solitaria, questa città – incredibile a pensarlo – sarebbe peggiore. E’ lui a ricostruire il filo labile di un’esistenza. “Si chiamava Fia. Era iraniano. Aveva sessant’anni. Stava lì, con i suoi adorati cani. E’ morto per strada. E’ inconcepibile, siamo molto tristi”. Daniela, un’altra ombra discreta, completa la narrazione: “Era una persona con una splendida luce. Era vegano. Mi disse: ‘Con tanto cibo che c’è, perché è necessario uccidere gli animali? Una volta lo incontrai nei pressi di un pub e volevano cacciarlo. Lo invitai a sedere accanto a me. Desiderava soltanto ascoltare la musica”. Giuseppe e Daniela sono stati lì fuori, nel gelo. Conoscono gli angoli. Altri l’avevano notato di sfuggita, all’andata o al ritorno di un viaggio. Né avevano potuto fare a meno di restare colpiti dai lineamenti nobili, dagli occhi sensibili. Le memorie si affastellano. Bruciano insieme per regalare calore postumo.

Mario Cucina, un ragazzo dai capelli bianchi che scatta fotografie con su impressa l’orma del cuore, ha scritto nel diario-agorà di facebook: “Lo incontravo spesso al Centro Olimpo. Era una persona discreta e si poneva con dignità. La sua scelta di vita non trasmetteva commiserazione ma rispetto. Dopo la chiusura del supermercato non lo avevo più visto, fino al 25 maggio di quest’anno, mentre mi recavo al Foro Italico, per la beatificazione di padre Pino, lo vidi mentre dormiva davanti ad un uscio. Aveva scelto l’ingresso dell’ex Hotel Ponte, come suo giaciglio. Al ritorno era ancora là, attorniato dai suoi cani, seduto in quel gradino che aveva retto ed ascoltato i passi degli uomini più potenti di Palermo. L’impulso di fargli la foto era stato molto forte, era una bella immagine densa di significati. Un altro impulso ancora più forte mi ordinò di cancellare quella foto. Rivolgendomi alla persona che era con me, dissi: non mi va che qualche imbecille possa scrivere commenti ironici su una persona perbene”. Forse c’era una idea nascosta nella cancellazione dell’immagine. Il rispetto della trasparenza che Fia aveva stabilito come condizione.

Nella storia dei barboni – parola che densamente spiega la difficoltà delle notte a cielo aperto, più che il tenue ‘clochard – non è facile individuare il nesso tra auto-determinazione e necessità. Ci sono esperienze che finiscono per strada per una rottura che le conduce alla volontà dell’esilio. Alcuni precipitano di profondità in profondità. Senza rete. Di solito il barbone è uno che sperimenta entrambe le situazioni in un impasto tra libertà e obbligo. Un miscuglio che lo rende alieno, non decifrabile, estraneo. Un evidente punto di contestazione inchiodato sulla porta delle nostre abitudini, piantato nella superficie dei telefonini che ci illuminano il viso, mentre li guardiamo, sorridendo, come se fossero esseri umani.

E’ duro il paradosso svelato dagli sguardi bambini di Fia e dei suoi fratelli. Non sono loro gli invisibili dei nostri giorni. Tutti lo siamo negli occhi del vicino. Tutti siamo invisibili a noi stessi. Il dolore natalizio che proviamo è sincero, però è anche figlio del senso di colpa, dell’incapacità di trovare risposte adatte per noi, più che per lui. Ci muoviamo in un vicolo cieco, se la cosa più vera che c’è somiglia a un giaciglio vuoto. La casa di un uomo che aveva un nome e dei suoi amatissimi cani a piazza Quattordici Vittime.

(Fia, foto degli Angeli della notte)

 


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