Riceviamo e pubblichiamo una riflessione del geologo Carlo Cassaniti su quanto accaduto a Ischia.
A due giorni dalla (ennesima) frana di Casamicciola nell’isola di Ischia, si ritorna a parlare di dissesto idrogeologico. Numerose sono le parole di esperti, amministratori e politici su cosa si poteva (doveva) fare e sulla necessità che tali tragedie non debbano più accadere. Parole che, purtroppo come già avvenuto in passato, rischiano di essere scritte nel ghiaccio in una giornata di agosto.
Come a Ischia, noi siciliani ricordiamo (forse) le 37 vittime dell’alluvione di Giampilieri nel 2009, le 3 vittime di Saponara nel 2011 e le 9 vittime dell’alluvione di Casteldaccia nel 2018. Secondo il rapporto ISPRA 2021 “Dissesto idrogeologico in Italia”, circa 320mila siciliani vivono in aree a rischio frane, per quasi duemila chilometri quadrati di territorio (7% del totale della superficie regionale).
Bisogna avere il coraggio di trattare i cambiamenti climatici come fenomeni naturali che non sono più da considerare eccezionali ma che, siamo certi, si riproporranno con forza nel prossimo futuro sul nostro territorio, ormai completamente obliterato dalla mano dell’uomo che ha occupato ogni spazio disponibile secondo proprie esigenze.
Ma basta con la retorica dell’abusivismo e delle “bombe” d’acqua! C’è ancora una parte del Paese (compresi alcuni del mondo accademico) che si ostina a pensare che l’unica soluzione per la mitigazione del rischio idrogeologico sia l’inserimento di ulteriori opere strutturali in un territorio ormai saturo di cemento e quasi praticamente impermeabile.
Dalla conoscenza degli scenari di rischio, ormai quasi consolidata, bisogna passare alla decostruzione di quelle aree del territorio dove all’alta pericolosità geologica intrinseca sono stati aggiunti elementi di rischio come abitazioni o infrastrutture. Dalle analisi di suscettività all’edificazione contenute negli studi geologici dei piani urbanistici generali si deve necessariamente passare ad una trasformazione urbanistica del territorio che consenta di insediare le comunità in aree “più sicure”.
Il ricorso ai fondi del PNRR senza una nuova normativa di riordino (culturale) del settore rischia quindi non solo di sprecare fondi pubblici, ma soprattutto di peggiorare (paradossalmente) lo stato del dissesto idrogeologico nel Paese. Parole d’ordine quindi devono essere monitoraggio geologico, aumento della conoscenza, comunicazione dei rischi, nuove politiche di gestione del territorio e semplificazione delle procedure.
Se tra qualche giorno, pensieri e parole saranno sciolti al sole, presto un’altra comunità sarà sconvolta dalla miopia della politica antropocentrica.