BIANCAVILLA (CATANIA) – “Quello che mi ha colpito della storia del giudice Livatino è che era proprio una persona come noi. E che beato c’è diventato per avere combattuto la mafia, ma per quanto tempo ancora ci dobbiamo sopportare la mafia?”. Mauro ha 11 anni. Partecipa alle attività dell’oratorio intitolato (non a caso) a Don Pino Puglisi e facente parte del Santuario Maria Santissima dell’Elemosina a Biancavilla.
La camicia insanguinata
Ieri pomeriggio, da qui, è passata la reliquia del Beato Rosario Livatino. E’ la camicia insanguinata custodita all’interno di una teca: quel sangue è il suo, quello del giorno dell’agguato. Del giorno della morte. E’ una testimonianza che ti colpisce. Un pugno allo stomaco.
Il giudice ragazzino caduto sotto i colpi mafiosi della Stidda di Agrigento.
Venne affiancato da una Fiat Uno e da una motocicletta di grossa cilindrata. Costretto a scendere dall’auto e tentando di fuggire, venne freddato da una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato: da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino.
Il messaggio di ieri è stato forte: un momento di grande luce in tempi che sembrano rassegnarsi al buio dei fatti, al cospetto di un uomo dai principi solidi e forti. I mafiosi lo chiamavano santocchio un modo sprezzante per identificare la sua frequentazione della Chiesa.
Ieri, dunque, la testimonianza necessaria: un messaggio ai più giovani che hanno accolto con silenzio e ammirazione il simbolo di quella camicia insanguinata e impregnata di impegno e lotta per una Sicilia più giusta.
E come dice Mauro: “Ma per quanto tempo ancora ci dobbiamo sopportare la mafia?”.