La faida e l'omicido Leanza |Chiesta condanna per i boss - Live Sicilia

La faida e l’omicido Leanza |Chiesta condanna per i boss

Nella foto il delitto di Turi Leanza

I pm Antonella Barrera e Andrea Bonomo hanno sviscerato punto per punto l'inchiesta En Plein che lo scorso anno riuscì a fermare una guerra di mafia tra i referenti paternesi dei Laudani e dei Santapoala.

la cupola paternese
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CATANIA – Per il pentito paternese rinnegato dalla madre, Francesco Musumarra, i pm Antonella Barrera e Andrea Bonomo hanno chiesto al Gup Giuliana Sammartino la condanna a 10 anni di carcere. Le rivelazioni del collaboratore di giustizia diedero un’accelerazione alle indagini scattate dopo l’omicidio di Salvatore Leanza freddato sotto casa il 27 giugno del 2014. Un’inchiesta delicatissima quella dei carabinieri che lo scorso anno portò a 16 fermi tra le file della famiglia Morabito e Rapisarda, alleati dei Laudani, e degli Alleruzzo-Assinnata, storici “referenti” dei Santapaola-Ercolano a Paternò.

L’udienza preliminare si è svolta a porte chiuse. Davanti all’aula II della Corte d’Assise al piano terra la folla di parenti ha aspettato diverse ore. E ogni volta che usciva un agente di polizia penitenziaria c’era chi sbirciava sperando di vedere uno dei detenuti. Mogli, figli (anche piccoli) e familiari hanno atteso la fine del processo che è stato rinviato per le arringhe difensive. Il prossimo primo aprile, salvo rinvii, il Gup leggerà la sentenza relativa agli imputati che hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. In quella stessa data deciderà sul rinvio a giudizio di Salvatore Rapisarda (detto Turi U Porcu – Panzuni), del figlio Vincenzo Salvatore Rapisarda (Alias Scrusci Scrusci), di Alessandro Giuseppe Farina e di Giuseppe Parenti. Turi Rapisarda è accusato di essere il mandante dell’omicidio di Salvatore Leanza, considerato all’epoca il reggente del clan rivale.

E’ durata diverse ore l’udienza preliminare. I pm Barrera e Bonomo hanno svolto la requisitori e hanno formulato le richieste di pena per gli altri imputati che hanno scelto il rito alternativo. Resta fuori Angelo Primo Sciortino (U Rossu) la cui posizione è stata stralciata per un vizio di nullità nella notifica. La pena più dura è quella chiesta per Francesco Santino Peci, accusato del tentato omicidio di Antonino Giamblanco e di detenzione di armi. Per lui i pm hanno chiesto 13 anni di reclusione. 12 anni la richiesta per Vincenzo Morabito (Enzo Lima), 10 anni per Antonino Magro (U Rannazzisi), 9 anni per Antonino Barbagallo (Ninu U Muzzuri), Rosario Furnari (Saru U Carabbacchiu), Antonino Giamblanco (U Sciallarese), Sebastiano Scalia (Ianu Cacocciola), Giuseppe Tilleni Scaglione (U cantante). 9 anni e 8 mesi per Salvatore Tilleni Scaglione. Pena più lieve (si fa per dire) per Vincenzo Patti (frastorno).

Quando è partita l’inchiesta (chiamata En Plein) era in corso una vera guerra per la conquista del potere criminale a Paternò. La faida – come detto – aveva portato nell’estate del 2014 a due gravi fatti di sangue uno nel cuore della città e una nelle campagne di Motta Sant’Anastasia: l’omicidio di Salvatore Leanza (Turi Padedda), 59enne e conosciuto come uno dei boss del clan di Giuseppe Alleruzzo, e l’agguato fallito ad Antonino Giamblanco. Una relazione antimafia parlava di Turi Padedda come il nuovo capo dei Santapaoliani di Paternò, mentre i Laudani potevano contare sui Morabito. La notizia quella del tentato omicidio che era rimasta nel massimo riserbo: a rilevarla era stata la relazione della Direzione Nazionale Antimafia dove era evidenziato come Paternò fosse tornata zona di trincea. Le indagini hanno permesso ai carabinieri di fotografare lo scenario criminale e di ricostruire la struttura organizzativa dei due gruppi e inoltre anche la modalità di gestione delle “casse comuni”.

Salvatore Leanza è stato freddato il 27 giugno 2014 con tre pistole: una calibro 7, una 7.38 e una 38. Un’eliminazione di mafia che ha fatto alzare il mirino dei carabinieri su Salvatore Rapisarda, storico capo del clan Morabito, vicino ai Laudani e, quindi, gruppo contrapposto agli Alleruzzo Assinnata di cui era capo proprio Turi “Padedda” Leanza. Immediate le intercettazioni nei confronti dello storico mafioso, fratello di quell’Alfio Rapisarda ucciso nel 1982. Salvatore Rapisarda pochi giorni dopo il delitto è finito nel carcere di Bicocca per l’espiazione di un residuo pena. Il monitoraggio continuò dietro le sbarre anche grazie al supporto della polizia penitenziaria. Alcuni sodali si sono recati in una stradina sterrata dietro la cinta muraria dell’istituto e urlando hanno cercato di parlare con i detenuti. Le telecamere li hanno inchiodati.

A far visita al padre in carcere è arrivato Vincenzo Salvatore Rapisarda, conosciuto come Turi a Paternò.
Un’intercettazione del 29 luglio 2014 non ha lasciato dubbi: il boss avrebbe dato al figlio il benestare per uccidere un uomo molto vicino al capomafia ammazzato. Il giorno dopo a Motta Sant’Anastasia, Antonino Giamblanco, uomo di fiducia di Turi Leanza,mentre guidava la propria auto nei pressi della discarica di Contrada Tiritì si è accorto che a bordo di una Fiat Uno c’era un commando armato pronto a fare fuoco. Giamblanco è riuscito a sfuggire all’agguato: i carabinieri hanno trovato l’auto abbandonata e diversi bossoli sull’asfalto. Pallottole di un mitra, un M12 con silenziatore, sequestrato a Francesco Peci.Salvatore Rapisarda per gli inquirenti oltre ad essere stato il mandante dell’omicidio di Turi Leanza, sarebbe anche quello ad aver dato l’ordine per uccidere Giamblanco. Il gruppo contrapposto dei Rapisarda altri non era che quello che aveva come capo il boss (ucciso) Salvatore Leanza che dalla sua scarcerazione nel 2013 aveva ripreso le file della famiglia strettamente legata ai Santapaola. Turi Padedda si era circondato di un gruppo di picciotti e aveva cercato di prendere nuovamente potere a Paternò. Il suoi fedelissimi erano Antonino Giamblanco, Rosario Furnari, Giuseppe Tilleni Scaglione e Salvatore  Tilleni Scaglione. Un ritorno nello scenario criminale quello di Leanza che ha rotto i delicati equilibri criminali in città. A chiudere il cerchio, come detto, sono state le parole di Franco Musumarra, detto Cioccolata, che si è autoaccusato di far parte del gruppo di fuoco  che ha ammazzato Turi Padedda e ferito la moglie. Quel boss a cui è stato dedicato un corteo funebre con tanto di applausi e onori. Un episodio ora al vaglio della Commissione Antimafia all’Ars.

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