Pochi giorni fa, nell’ambito della rassegna “Un té con l’autore”, curata da Rosa Di Stefano, negli spazi del “Palazzo del Poeta”, si è discusso del romanzo “Dalla parte giusta”, prima fatica letteraria del giornalista Accursio Sabella. Il libro è edito da Laurana. Ad analizzare il testo, in quell’occasione, la scrittice Cetta Brancato. Ecco, di seguito, la sua recensione e nota critica sul racconto.
Una storia letteraria, per definirsi tale, deve contenere un segreto e mantenerlo come una vena di sangue buono nel corpo delle pagine che la narrano.
Così accade in Dalla parte giusta, di Accursio Sabella, suo primo romanzo.
Difatti, appena dopo l’incipit, Bruno, il protagonista, non per strategia, né per insinuare una trama, né per preparare un colpo di scena, compie un gesto che appare di comune pietà.
In quel movimento autentico della mano c’è, invero, la traccia intima del dolore: un gesto immenso nella storia invisibile della scrittura, capace di attribuire valore universale alla narrazione.
Dalla sua professione di giornalista, certamente, Accursio trae la linfa più viva per descrivere la polvere, anche assassina, dei palazzi del potere con strategia intelligente e fortemente ancorata alle cronache del nostro Paese.
Per far questo si serve delle figure di tre amici che insieme, pur venendo da estrazioni sociali e culturali diverse, scalano la vetta del dominio politico, componendo una sorte che neppure il matriarcato riesce a salvare. Vicende di astuzia, di povertà e di menzogna che, nella maniera nitida e feroce dei nuovi vinti, assaltano la diligenza del comando con spregiudicata vecchia baldanza ma con contemporanee strategie.
Il racconto di queste anime non esiste. La scrittura non concede loro spazio. Tutto si ferma prima del limite di una possibile redenzione della coscienza.
Ecco, dunque, apparire la cinica e sapiente statura dell’intellettuale siciliano che non assolve il personaggio che in rari casi, spesso solo laddove, per fortuiti eventi, preserva la propria innocenza.
Ma i protagonisti che tessono questo racconto disdegnano ogni ingenuità: insieme vanno verso un solitario destino nella falsa prospettiva di tesserne uno comune. Amici fin dalla giovinezza, il loro legame versa su un’intesa di debolezza e di finzione, strutturata in un progetto politico.
Bruno, colui che racconta, è – scrive Accursio – un uomo che ha imparato a vivere da un lampione e che è sicuro solo sotto l’ombra di quel lampione.
Insieme a lui, in un’unica morsa narrativa, Marco un giovane uomo ambizioso e spregiudicato e Giulio, fragile e intellettuale, figlio di un notabile del luogo: creature che, come mosse da un burattinaio, sperano di riscattare le proprie esistenze, sicuramente, destinate ad altro.
Testimone della sconfitta di Bruno, l’unico che gli offre la dignità di una cattedra e, dunque, la possibilità di un riscatto sociale attraverso la cultura, è Ennio Volturno, professore di sociologia, una di quelle brave persone che amano i concetti, le concatenazioni, i paradigmi, ma che non è in grado di prepararsi un caffè con la moka o di piantare un chiodo al muro. Lui non fa altro che gustare le parole, sceglierle con cura, socchiudere gli occhi come a suggerne il sapore.
Ma il giovane, appena laureato, rifiuta una vita dedicata alla ricerca perché in lui preme la speranza verso un futuro economicamente più solido dopo aver visto morire il padre, vissuto nel Buconero, il quartiere malfamato della città, luogo in cui tutto inizia e tutto finisce nel carosello esistenziale.
Accursio, nel disegnare lo sfondo narrativo del romanzo, inventa un luogo immaginario. Trova dunque un altro modo per raccontare la nostra isola che, per la sua innata superbia, chiede, talvolta, ai propri figli di non essere narrata.
Ma egli sa ben recuperare i piccoli e infiniti paesaggi che la Sicilia concede. La misera geografia della provincia sulle strade comuni in cui il dettaglio si fa poetico fino alla commozione, seppure trattenuta da una penna matura. E anche i paesaggi naturali, ricchi di quell’anima che i personaggi non hanno, custodiscono una tensione lirica non comune soprattutto quando lo scrittore manifesta pietas per il patrimonio perduto dell’integrità.
In questo romanzo il potere mostra la sua faccia più cruda e realistica. Ma, anziché confinare le sue pagine nella già conosciuta riflessione sulla mafia, Accursio avverte il bisogno di dargli un nome tutto suo. Direi che ne estende il confini, non relegandolo in un tessuto sociale in cui il bene e il male sono riconoscibili ma lo rende trasversale sia umanamente che geograficamente.
Nessuno ha considerazione del dolore della gente, nessuno della loro dignità, nessuno dei loro diritti, nessuno del loro amore.
Tanto la gente urla e presto dimentica.
Nel deserto umano, così chiaramente delineato, trova radici e cresce la Cateria nella sua forma più mimetica e feroce.
Glielo do io un suggerimento: se lei cerca la Cateria, non vada dove trova scritto Cateria. Se cerca una risposta, non vada da chi si batte il petto e dice: la Cateria fa schifo. Capisce cosa intendo?».
La verità è che la Cateria è ordine trasversale, non verticale. Se lei volesse spazzarla via, dovrebbe trascinare con sé i partiti, la finanza, i giornali, i tribunali, ma anche le ditte di smaltimento rifiuti, di costruzioni, di trasporti, di pulizie. Dovrebbe trascinare con sé l’intera Regione. Perché la Cateria è ordine negli ordini, tra gli ordini, mi capisce?».
La Cateria è la Regione e la Regione è la Cateria. E ricorda che qui, nell’Isola, la Cateria è importante e lo sarà sempre. Sempre. Finché esiste, perché esiste, e anche quando sembrerà estinta».
In questo panorama narrativo la figura femminile ricopre, appena, i ruoli fondamentali a cui la società la destina. Non ha parole di particolare pregio. Da ciò consegue che la fisionomia maschile risulta priva di educazione sentimentale e distante da una prospettiva esistenziale autentica. Fa eccezione una donna che incarna, nel suo ruolo materno, una coscienza preveggente, tuttavia sopraffatta dal tradimento.
Una scia di morte ben tessuta attraversa le pagine di Accursio. Destini che si concludono per ricominciare la cui traccia non disegna mai un nuovo percorso.
Insomma, ancora una volta, tutto cambia per non cambiare nulla ma, questa volta, in un tramestio di storie contemporanee, svilite dalla perdita di ogni struttura esistenziale.
I personaggi hanno superato l’assurdo, la noia, il nulla. Nudi, nelle loro storie, hanno il ritmo esterno della vita.
Monadi prive di qualsivoglia essenza, ignorano il tempo, strutturando un potere che li rende protagonisti di un’umanità senza sostanza. Hanno imparato a prendersi beffa della vita che, immancabilmente, si prende beffa di loro.
La realtà non può essere narrata in Sicilia e Accursio lo sa bene. Possono sopportarla solo gli uomini di particolare tempra o i pazzi come Pericle Tramontana, detto Pepè, uscito di senno a causa di una donna troppo bella per lui.
Pepè è la figura più autentica del romanzo a cui viene affidato il nascondimento e la verità insieme.
Ma qualsiasi cosa sappia o riferisca è roba da pazzi, credibile a buon mercato, colpevole ma non fino in fondo perché, a causa del suo delirio d’amore, rende possibile tutto, dando unità alla narrazione Infine capovolgendola.
Quasi nell’ultimo movimento narrativo a Bruno non gli resta dunque che rendere testimonianza della sconfitta umana e politica di una generazione.
Cosa resta adesso dell’amore che ho ricevuto? Comprendo che non è la morte a commuovermi, ma la vita, la mia vita futura che quel giorno si rivela: una vita comoda, una vita da potente, ma una vita senza amore e senza odio, una passeggiata in una città deserta, l’espiazione nell’inferno della routine, dei giorni che passano ma non cambiano, delle ore che corrono senza fare rumore. Appoggio la schiena sull’auto, il copriletto tra le mani. E piango, piango in silenzio.
È l’ultima volta in cui mi sento vivo.