CATANIA – “Provengo da una famiglia d’artisti”. Punto. Anzi, punto esclamativo. Verrebbe da concluderla così, con una battuta che – se ci si pensa bene – è allo stesso tempo completa e solenne. Un precipitato di consapevolezza ontologica. Egidio Incorpora è questo. Non soltanto il figlio del grande Salvatore (pittore, poeta, scultore e persino soldato italiano rinchiuso nei campi di prigionia tedeschi all’indomani dello “sbando” dell’8 settembre, nato calabrese ma trapiantato in quel di Linguaglossa). Incorpora – che da circa quarant’anni collabora con il quotidiano La Sicilia – è soprattutto testimone, cantore e continuatore di una tradizione familiare che ha conosciuto sulla propria pelle la fatica della bellezza. Perché se il manufatto artistico non nasce da solo, ci vuole qualcuno che se ne faccia carico tra polveri colorate e sudore.
In fondo, lo sappiamo: “L’arte è un lavoro sporco, qualcuno deve pur farlo”. Una citazione da prendere alla lettera, calli alla mani e vestiti resi sudici dal duro impegno artigiano incollati addosso.
Botteghe d’arte (Rubbettino, euro 15) è la fotografia romantica e rovente scattata in un tempo senza fine. “Il mio bisnonno – scrive Egidio Incorpora – scolpiva Madonne per le chiese della Locride, quelle grandi che stanno negli altari laterali, dentro nicchie a volte piccole e a volte grandi. Mia nonna modellava la creta. «Figlia d’arte», come piaceva dire a mio padre. E anche lui «figlio d’arte», come si autodefiniva. Niente scuole. Niente accademie. Solo botteghe. Sì, la bottega. Mi ha sempre affascinato questa parola. Bottega. O ancora, bottega d’arte. I miei avi si sono tramandati il mestiere, meglio l’arte, da bottega in bottega. E come la immaginate la bottega? Io l’ho sempre pensata all’interno di una stanza grande, due, tre tavoli, un trespolo, un cavalletto. E poi disordine e disordine. Carte, legni, crete, mazzuoli, stecche, manichini, buste”.
“Per i miei avi più antichi, sacchi di juta – ci racconta ancora Incorpora – Secchi di zinco pieni d’acqua da utilizzare per bagnare la creta. E poi, alle pareti, quadri appesi in disordine e, assieme a essi, strumenti di lavoro: seghe, martelli, squadre, compassi. E poi ancora pennelli, pennelli piccoli e grandi. Colori. Tanti colori. Verde. Rosso. Giallo. Nero. Bianco. E terre in polvere colorate. Terre racchiuse in carte di giornale o, meglio, da imballaggio, quelle spesse, colore marrone, che emanavano un odore acre. Terre da sciogliere nell’acqua o, a seconda del quantitativo, sfumature per i colori ocra, ocra rossa, bruna, e, quindi, terra di Siena naturale e terra di Siena bruciata. Ma c’erano anche i gusci delle uova. Gusci di uova. Sì, gusci”.
Se ci si impegna, è possibile che quegli odori possano tornare al naso. Perché possono appartenere tutti in un respiro che sa di universale. La scrittrice Maria Attanasio ce lo ricorda nella prefazione: Botteghe d’arte non è soltanto una libro di memorie familiari. È un viaggio appassionato nel Mezzogiorno d’Italia, attraverso due secoli di profondo Sud.
Eccola: “Con il fondamento emozionale di una scrittura che in una sorta di autobiografia dell’anima trova sintesi e parola, attraverso la storia della bottega d’arte della sua famiglia, Egidio Incorpora vuole recuperare il vissuto di tre generazioni di artisti-artigiani; un viaggio espressivo, che attinge a diari, memorie familiari, reperti documentari biografici, artistici, di costume, per dare voce e volto a quel già stato. Ma si affida soprattutto all’immaginario nel ricostruire l’esistere e il fare degli avi più lontani nel tempo: il trisavolo, il bisnonno, la prima parte dell’esistenza della nonna”.
“A partire da un’interrogazione ai luoghi del loro vissuto – scrive Maria Attanasio – spazialità che per Incorpora non è pura orizzontalità di sguardo su strade e paesaggi, ma stratificata e pulsante verticalità di vissuti e linguaggi. Deposito di un sommerso dire, di cui si mette in ascolto: dalla borbonica Calabria Ulteriore – fondale spazio/temporale delle prime due generazioni – alla Sicilia orientale del secondo Novecento, dove, con l’appassionata ricostruzione della vita del padre, il percorso della memoria si conclude; non quello della sua scrittura, tutta attraversata dalle vibrazioni di una contemporaneità, stretta tra lockdown e pandemia”.