Le case per i Rom e il pregiudizio | Sconfiggiamo insieme la paura - Live Sicilia

Le case per i Rom e il pregiudizio | Sconfiggiamo insieme la paura

La polemica sul campo e sulle case di via Emma. Scrive l'assessore alle Attività Sociali.

In una delle concitate discussioni di questi giorni sulla dismissione del campo Rom della Favorita, qualche giorno fa un cittadino mi ha detto “lei fa il parrino, anzi lei è parrino. Deve fare l’assessore. Deve fare il nostro bene”.

Una frase che, nella sua estrema sintesi esprime come questa vicenda abbia assunto contorni paradossali ed allo stesso tempo sia espressione del nostro tempo. Quella frase mi ha posto e mi pone di fronte ad una domanda: è possibile una dicotomia tra chi sei e cosa fai? È possibile mettere in pratica la coerenza tra valori e atti politici? Da quando essere “Parrino” (che è per me riferimento a valori, piuttosto che riferimento alla struttura ecclesiale) è divenuto sinonimo di essere “inadeguato”? L’esperienza di questi mesi mi ha portato più volte a chiedermi chi sono realmente, cosa sto facendo. Sto realmente lavorando per il bene della nostra comunità? Il lavoro di amministratore e l’azione politica devono rifarsi a dei valori universali o solo agli umori della maggioranza dei tuoi elettori? Dobbiamo soccombere di fronte alle difficoltà amministrative o dobbiamo sconfiggere le difficoltà e trasformarle in opportunità?

Cosa dicono dei Rom

“Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e latta nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali… Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.

Ho pensato spesso a queste parole nelle ultime settimane, perché le stesse parole le ho sentite ripetere a proposito degli ‘Zingari’, dei cittadini Rom che abitano a Palermo da decenni. Ma quelle parole non sono state scritte a proposito degli ‘Zingari’, bensì a proposito degli italiani, degli emigranti italiani che arrivavano negli Stati Uniti ai primi del ‘900 e sono state inserite in una relazione ufficiale al Congresso di Washington del 1912. Queste parole raccontano una esperienza complessiva che nella storia si ripete periodicamente; un’esperienza che ieri ci vedeva vittime del pregiudizio, oggi suoi propagatori. Molte persone mi hanno detto le stesse cose degli “Zingari” che vivono al campo: “Non li vogliamo perché non si lavano, puzzano. Rubano, vivono solo di espedienti e sono pieni di collane d’oro. Non lavorano, chiedono solo elemosina. Se ne devono tornare a casa loro”. Ecco quindi che la situazione nata intorno alla dismissione del campo Rom esprime davvero un segno del nostro tempo; assume un valore più grande dei fatti in sé, perché se saremo profetici forse riusciremo ad essere efficaci; se riusciremo a trovare una soluzione adeguata forse avremo una speranza. Se invece ci lasceremo sopraffare dalle difficoltà e dalla paura non avremo speranza per alcuno, perché la paura spezza i legami comunitari, provoca scontro e ci rende tutti – sottolineo: TUTTI – meno sicuri e meno protetti.

Il valore della solidarietà

Insieme a quel testo sugli immigrati italiani, i fatti di questi giorni mi hanno riportato alla memoria un’altra storia lontana nel tempo: il racconto della Samaritana nel quarto capitolo del Vangelo di Giovanni; un testo nel quale, al di là dell’alto valore teologico, è evidente come l’evangelista sottolinei che Gesù viva la propria vita con i più fragili e più diseredati e che loro sono il centro di tutta la buona novella. I samaritani, i lebbrosi, i ladri, le prostitute… È sulla strada dell’emarginazione che Dio ci trova e ci salva. Lo ha ricordato Papa Francesco di recente incentrando spesso le sue omelie su un forte richiamo all’umiltà. Chi sono oggi i diseredati, i poveri, gli emarginati? Possiamo includere anche le persone Rom tra queste? Per qualcuno come il sottoscritto sì, per altri no. In un commento ad un articolo online un lettore ha scritto: “Bisogna aiutare i poveri e i diseredati come dice Gesù. Ma cosa c’entrano i Rom con i poveri e i diseredati?”. Questo mi riporta al mantra degli ultimi mesi: “Prima gli italiani, prima i palermitani”. Una affermazione che stride coi fatti e con le cifre (innanzitutto perché buona parte dei Rom sono cittadini italiani e palermitani all’anagrafe e poi perché meno del 3% delle somme destinate all’inclusione è destinato agli interventi con le comunità Rom).

Ma soprattutto, quella affermazione che vuole del “prima gli italiani e prima i palermitani” non affronta il vero nodo che è quello dell’equità e della giustizia sociale. Ritorniamo alla domanda dirimente: “I Rom a Palermo sono persone fragili? Sono emarginati e non godono dei diritti minimi? O sono degli approfittatori che non hanno diritti o che non hanno gli stessi diritti degli altri?”. Oggi è forte l’impegno di una parte politica affinché lo “straniero” non stia fra noi. Nel 1994, un manifesto attaccato sui muri di Berlino sbeffeggiava la fedeltà a schemi che non erano più in grado di rispecchiare le realtà del mondo: “Il tuo Cristo è un ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero”. Diceva Bauman che lo straniero è sempre stato uno che fa paura, perché è diverso. È la diversità che fa paura e non tanto l’essere straniero.

Lo “scemo” del villaggio fa paura; la persona che non si omologa al pensiero comune o dominante fa paura; chi canta fuori dal coro fa paura. Oggi si vuole far credere che lo straniero ci sta invadendo, ma è così fin dai tempi antichi. Le posizioni politiche sono tutte legittime. Ci troviamo in un sistema democratico e per fortuna riusciamo in Italia al contrario di altri paesi a vivere (a parte alcuni episodi inaccettabili) il confronto in maniera aspra ma leale. Per questo chiedo a tutti i movimenti e i partiti che in questi giorni si sono ritrovati a criticare le modalità scelte dal Comune a proporre altre soluzioni. Visto che la chiusura del capo è doverosa (per tanti motivi, non ultimo quello giudiziario) e che su questo punto nessuno si dice contrario, io chiedo a chi non condivide il piano e l’azione dell’Amministrazione di proporre un’alternativa. Lo faccio non per sfida ma con il massimo di umiltà e capacità di ascolto. Chi vuole mostrare di avere cultura e capacità di governo faccia le sue proposte. Altrimenti da più parti si rischia che arrivino solo parole vuote, che non solo non risolvono il problema adesso ma non getteranno le basi perché sia risolto in futuro da chi, nel giusto gioco dell’alternanza democratica, si troverà a governare domani.

Il piano per la chiusura del campo

Quanto avviene in molte città italiane sta dimostrando proprio questo. Questo non è uno scontro politico. Non vivetelo così. A chiunque voglia davvero collaborare a risolvere i problemi io dico “sediamoci e confrontiamoci”. Chi mi conosce sa che per me questo non è certamente uno slogan. Noi abbiamo un piano chiaro: chiusura e dismissione del campo di viale del Fante entro fine anno con l’accoglienza delle famiglie che sono nelle liste e che sono composte da cittadini palermitani in una modalità diffusa su tutto il territorio, prevedendo contemporaneamente una presa in carico e progetti di autonomia e di inclusione. Per le altre famiglie, l’attivazione di altre forme di autonomia, accompagnando anche ad eventuali ricongiungimenti familiari.

È un piano allo stesso semplice e complesso, ma mai come oggi le condizioni sono favorevoli perché si realizzi: ci sono le risorse, che come per tutte le grandi città sono state inserite nel Piano Operativo Città Metropolitane; il numero di cittadini che vivono nel campo è inferiore a 100 (rispetto agli oltre 250 Rom che vivono complessivamente a Palermo e, per fare un paragone, rispetto agli oltre 300 che vivevano nel Campo appena sgomberato a Roma). C’è, soprattutto, una asserita volontà da parte di tutti di chiudere un’epoca. Se il nostro piano non è condiviso, chi immagina altro è pregato di proporre; ripeto che saremo e siamo pronti al dialogo e all’ascolto. Se non a tutti, a molti toccherà governare nel tempo; è la base della democrazia. E anche chi oggi critica a Palermo, si trova a governare in altre realtà locali, in altre città, in altre Regioni. Sappiamo tutti che governare non si fa con i no o con i se, ma con le idee chiare. La storia giudicherà se siamo stati coerenti o se ci siamo semplicemente annacati. Padre Puglisi scriveva: “A chi è pieno di paure, di ansie e quindi non vuole muoversi perché ha avuto esperienze negative, il testimone della speranza cerca di infondere certezza, risolutezza creativa, coraggiosa, indicando modi concreti e validi di servizio, facendo comprendere che la vita vale se donata. A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non cosa è la speranza, ma chi è la speranza”. Questo vale per tutti, per chi crede e per chi non crede. Per chi governa e per chi è momentaneamente all’opposizione.

Cari abitanti di via Felice Emma

Agli abitanti di tutte le vie Felice Emma della città vorrei dire alcune semplici cose e ribadirle per chiarezza complessiva, nel rispetto di tutte le posizioni. Il centro siete voi, non fatevi utilizzare da nessuno, nemmeno dal sottoscritto. Confrontatevi tra di voi, non cercate all’esterno chi vi dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ribadite con forza i vostri diritti, ma provate a dialogare e a comprendere anche le posizioni degli altri. Occorre trasformare il momento di difficoltà in opportunità. È l’unica cosa che da operatore sociale, oltre che da assessore, posso dirvi, proporvi e chiedervi. Le opportunità possono essere trovate nelle situazioni più improbabili anche su una scala più ampia. Il vostro territorio, la vostra borgata è ormai agli onori della cronaca, ne parlano tutti. Utilizzate questa situazione non solo per dire no a qualcosa ma per proporre, per esigere diritti, chiedere quello che serve a voi e al vostro territorio. Siate propositivi e positivi. Non accettate e non coprite le occupazioni illegali che certamente non sono utili per voi, per i vostri diritti, per ciò di cui ha bisogno la vostra comunità.

È ormai evidente che le occupazioni abusive dei beni confiscati sono sotto il controllo della criminalità organizzata, che in questo modo vuole impedire che quei beni diventino utili per la collettività; un modo spregevole per sfruttare le persone fragili da parte di chi mai si è occupato della comunità e sempre si è curato dei propri interessi. La partecipazione dei residenti dei diversi quartieri e il dialogo erano previsti e sono previsti; il piano per la dismissione del campo Rom prevede ovviamente diversi passaggi e verifiche. Abbiamo provato, ho personalmente provato a rassicurare in tal senso ma la mancanza di fiducia verso le istituzioni ha bloccato ogni possibile dialogo e con il dialogo anche la possibilità da parte vostra di far sentire le vostre proposte, le vostre richieste, le vostre idee. Solo ascoltandoci a vicenda troveremo soluzioni, altrimenti avremo rinunciato ciascuno al proprio ruolo: voi a quello di cittadini con diritti e doveri; noi a quello di amministratori con doveri e responsabilità.

La felicità vale per tutti

Occorre essere generativi, solo così riusciremo ad uscire dal nostro piccolo territorio, nella coscienza che, come diceva John Stuart Mill, “sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell’umanità”. Dobbiamo provare a guardare tutta questa situazione in una prospettiva di comunità. Nelle discussioni di questi giorni stiamo mettendo insieme almeno cinque questioni importanti e fondamentali per la vita della nostra città: le periferie, che non sono solo quelle classiche che conosciamo tutti, ma quei territori dove è mancata la pianificazione e lo sviluppo; la qualità della vita dei nostri giovani, che si ritrovano a sopravvivere in un tempo della giovinezza ormai eterno; le politiche sociali di contrasto alla povertà, anche quella abitativa; l’accoglienza del diverso, di chi viene da fuori; la mancanza di dialogo e di mediazione sociale.

Tutte queste questioni sono importanti e non possiamo affrontarle nell’emergenza della questione “campo Rom”. Vanno affrontate tutte con concretezza e serietà e intrecciarle con la questione “chiusura campo Rom” non è corretto ma è soprattutto limitante. La politica, intesa come arte e capacità di trovare soluzioni ai problemi della comunità e dei suoi cittadini, ha bisogno di cultura, di visioni, di capacità di dialogo. Occorre rifiutare una politica che insegue solo le emozioni. La mancanza di visione è all’origine dei fondamentalismi, non solo quelli religiosi, ma anche politici. Karol Wojtyla scriveva: “Io credo che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione”. Ricostruiamo una visione che abbia l’uomo al proprio centro e la dignità di ogni persona come azione correlata. Concludo con una poesia di Eugenio Montale. Tutto quello che ho scritto ha lo scopo solo di riflettere insieme e di costruire percorsi partendo però dalla chiarezza dei punti di riferimento. Tutti hanno il diritto di vivere e non di sopravvivere: “La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive”.


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