Se qualcuno ha fatto carte false per seppellire un altro cadavere lo scopriremo molto presto. Perché in Sicilia, che è terra di misteri, stanno per tirare fuori i suoi resti dalla bara. Ossa, denti e la polvere di un uomo che forse non è quello che ci avevano detto tanto tempo fa. A sessant’anni dalla sua morte si scoperchia la tomba di Salvatore Giuliano. Oggi i medici legali del Policlinico di Palermo riceveranno l’incarico ufficiale per la riesumazione e, fra qualche giorno, in una cappella del piccolo cimitero di Montelepre sarà disvelato l’ultimo segreto del bandito che uccideva i contadini e sognava la Sicilia come una stella – la quarantanovesima – della bandiera americana.
È lui o non è lui? È davvero del siciliano più famoso del dopoguerra quel corpo martoriato dalle pallottole che, all’alba del 5 luglio 1950, era steso in mezzo al suo sangue in un cortile di Castelvetrano? È il leggendario e sanguinario Turiddu quello che hanno infilato in una cassa di legno o uno dei tanti sosia che il capobanda, scaltro e crudele, usava alla bisogna? Per trovare la verità sulla morte vera o presunta del “colonnello” dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, pupo nelle mani di mafiosi e di agitatori politici, la prossima settimana apriranno la sua bara e preleveranno un campione di Dna per confrontarlo con quello dei suoi discendenti.
Uno, Pino Sciortino, il nipote, abita ancora a Montelepre dove ha un albergo-museo – il Giuliano’s Castle – in onore del celebre zio. Tre o quattro altri parenti, li hanno già rintracciati negli Usa. È un pezzo di storia che riemerge dall’aldilà, un enigma che da qualche mese è diventato ancora materia d’indagine giudiziaria. “Abbiamo preso questa decisione per non lasciare dubbi su quel cadavere, abbiamo ricevuto una denuncia circostanziata, per il momento s’indaga intorno all’ipotesi di morto ignoto ucciso con premeditazione”, spiega il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che il 5 maggio scorso ha trovato sulla sua scrivania un rapporto della Questura di Palermo con un esposto firmato dallo storico Giuseppe Casarrubea – figlio di uno dei tanti sindacalisti assassinati dalla banda Giuliano – e dal ricercatore Mario J. Cereghino. Era un invito “a intraprendere un’attività conoscitiva per accertare la vera identità della persona uccisa nel cortile dell’avvocato Di Maria (Castelvetrano) rispondente al nome di Salvatore Giuliano, autore di omicidi commessi in Sicilia nel periodo che va dal 2 settembre 1943 e fino al 5 luglio 1950”. La richiesta dei due studiosi è partita dopo dieci anni di ricerche, soprattutto su un paio di filmati e una dozzina di fotografie che ritraevano il bandito con i suoi sgherri. Immagini a confronto, quelle con Giuliano vivo e quelle altre con Giuliano morto, che hanno cominciato a far venire i primi sospetti agli storici e non solo a loro. Le foto più significative – cinque, il bandito fotografato all’obitorio e il bandito fotografato nel cortile di Castelvetrano – sono finite per altre vie nei laboratori del professore Alberto Bellocco, docente di medicina legale all’Università Cattolica di Roma, che dopo averle esaminate ha dato il suo parere: “Ho seri dubbi che le foto possano essere attribuite allo stesso cadavere”.
Così è nata l’inchiesta giudiziaria (coincidenza, il fascicolo è stato ufficialmente aperto il 5 luglio del 2010, proprio nel sessantesimo anniversario) sul cadavere del bandito di Montelepre e così i magistrati sono arrivati alla conclusione che bisognava aprire quella tomba. Dopo avere ascoltato Casarrubea e Cereghino, interrogato testimoni e periti e “fonti” che gli inquirenti non vogliono ancora scoprire, il procuratore aggiunto Ingroia – insieme ai sostituti Francesco Del Bene, Marcello Viola, Lia Sava e Paolo Guido, che sono tutti i pm che hanno competenza territoriale per le vicende di mafia fra il Trapanese, dove c’è Castelvetrano, e la parte occidentale della provincia di Palermo, dove c’è Montelepre – ha incaricato il capo della polizia scientifica Piero Angeloni di “comparare” foto ed emettere un verdetto. Impresa difficile, immagini di qualità scadente, un’indagine che richiederà tempi molto lunghi. In attesa del risultato finale i magistrati di Palermo hanno preferito andare subito al cimitero e provare a capire cosa è accaduto più di mezzo secolo fa tra Castelvetrano e Montelepre, valli e colline di una Sicilia che in quegli anni ha vissuto furori indipendentisti e conquiste mafiose, che ha sofferto fame e pianto morti. Il primo commento di Casarrubea alla notizia della riesumazione del cadavere di Giuliano: “La procura si sta muovendo nella direzione giusta, nonostante il tempo trascorso finalmente ne sapremo di più su un giallo che è all’origine della storia della nostra Repubblica. L’esame del Dna ci dirà chi è sepolto in quella tomba”.
Chi ci sarà là dentro? Ci saranno gli avanzi dell’uomo che lottava per “una Sicilia ai siciliani” e sparava a Portella della Ginestra, che assaltava caserme e camere del lavoro, o ci sarà “il sosia di Altofonte”, quel ragazzo che gli somigliava tanto da sembrare un suo gemello e che già era descritto con dovizia di particolari nelle cronache degli Anni Cinquanta? Una messa in scena, la sua vita e una messa in scena anche la sua morte. Dal mito di un Robin Hood nostrano “che ruba ai ricchi per dare ai poveri” a burattino al servizio dei potenti boss di Monreale, da confidente e alleato dei pezzi grossi dell’Arma e del ministero dell’Interno a vittima dei patti più indicibili fra Stato e mafia e servizi americani, i primi, solo i primi di una lunga trama. Gli incontri con Ciro Verdiani, l’Ispettore generale della pubblica Sicurezza in Sicilia che alla vigilia di un Natale incontra il bandito nel suo regno – fra le colline di Sagana – portandogli in dono un panettone e una bottiglia di Marsala. Le lettere del capitano Antonio Perenze a Gaspare Pisciotta (“Caro amico mio…”), il cugino traditore di Giuliano che poi muore avvelenato all’Ucciardone. Gli intrighi con il colonnello Ugo Luca del Cfrb, il Comando Forze Repressione Banditismo. Tratta con tutti e tutti trattano con lui. Ma dopo le elezioni politiche del ’48, Salvatore Giuliano, è un uomo scomodo per i suoi complici, comincia sentirsi abbandonato dallo Stato e comincia a negoziare, pensa a una fuga, a lasciare la Sicilia per sempre. Manda segnali. Il 19 agosto del 1949 la sua banda uccide sette carabinieri a Bellolampo, è l’avvertimento a polizia e Arma, non si fida più di loro. E minaccia di vuotare il sacco sulla strage di Portella, undici morti e ventisette feriti il primo di maggio del 1947. Il processo di Portella – siamo nel giugno del 1950 – è alle porte e il ministro degli Interni Mario Scelba trema. Neanche quattro settimane dopo trovano il cadavere del bandito (il suo?) nel cortile di Castelvetrano. È una finzione, i carabinieri di Luca raccontano di un conflitto a fuoco dove Salvatore Giuliano cade. Il giornalista de L’EuropeoTommaso Besozzi smaschera le menzognere ricostruzioni della sbirraglia e attacca il suo articolo con parole che resteranno nella memoria di tre generazioni di reporter italiani: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Dopo sessant’anni, oggi, non abbiamo certezza neanche di quello.
Chi ci sarà lì dentro? Se qualcuno ha fatto carte false per seppellire un altro cadavere, Salvatore Giuliano, nato a Montelepre il 16 novembre del 1922, chissà dove avrà consumato la sua esistenza di “indesiderato”.
Qualcuno dice che l’hanno portato sull’isola greca di Samos. Qualcun altro ricorda che l’hanno visto imbarcarsi a Selinunte, quattro giorni prima del 5 luglio 1950, su un peschereccio che faceva rotta per la Tunisia. Dall’Africa sarebbe poi volato verso la sua amatissima America. Ma un ultimo testimone racconta – e probabilmente questa confessione è già agli atti dell’inchiesta giudiziaria – che anche Padre Pio fosse convinto che “un povero figlio di mamma” era morto al posto del bandito. E che lui, Salvatore Giuliano, in una mattina di quella lontana estate fosse arrivato a San Giovanni Rotondo travestito da frate cappuccino.
di Attilio Bolzoni (da Repubblica del 15 ottobre 2010)