In maniera inaspettata, nel comunicato della Fondazione Falcone, in risposta a un intervento di Leoluca Orlando sul sorprendente anticipo di circa dieci minuti (rispetto alle 17,58) del ‘Silenzio’ dinanzi all’Albero Falcone, si torna a rievocare lo “scontro” tra Giovanni Falcone e Orlando. Io c’ero e vorrei offrire una riflessione di carattere storico.
Falcone e Orlando sono due figure che, ciascuno nel proprio ambito, hanno dato un contributo straordinario alla lotta alla mafia e alla sua sotto-cultura di morte e sopraffazione, pagando spesso un prezzo altissimo. Falcone, addirittura, ha sacrificato la vita insieme alla moglie Francesca Morvillo, magistrato, e agli uomini della scorta.
La loro azione si è svolta in un’epoca drammatica segnata da omicidi mafiosi che colpivano magistrati, poliziotti, giornalisti, imprenditori, politici e da evidenti collusioni tra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati.
Pezzi delle istituzioni, non di rado compromessi, mostravano scarsa volontà di recidere in modo definitivo ed efficace i legami con la criminalità organizzata. Esporre tali connessioni – si obiettava – avrebbe significato compromettere la storia della Repubblica e, soprattutto, una parte della classe dirigente.
Uno scenario tragico
In tale scenario tragico e carico di forti tensioni si muovono Falcone e Orlando. Il primo, giudice innovatore, rivoluzionò i metodi investigativi promuovendo una visione unitaria della struttura mafiosa e intuendo la presenza di “menti raffinatissime” nei palazzi del potere, non unicamente politico.
Purtroppo, era prevedibile, incontrò resistenze all’interno della stessa magistratura. Orlando, politico libero da rigide categorie partitiche, denunciò già prima della caduta del Muro di Berlino la “cultura dell’appartenenza” che alimentava una democrazia malata e quelle zone d’ombra in cui prosperavano le connivenze tra colletti bianchi e criminalità.
In particolare, sferrò un attacco alla corrente andreottiana e limiana della DC, partito in cui militava, che inchieste e sentenze avrebbero poi confermato come uno dei principali collegamenti tra mafia e politica. Di fronte allo strapotere di quella corrente dentro il partito lascio’ la DC promuovendo il movimento “La Rete”.
L’intreccio con la mafia
L’intreccio tra politica, istituzioni e mafia era così complesso che spesso i confini tra l’azione del magistrato e l’attività del politico risultavano sfumati. Falcone, non allineato, auspicava un maggiore impegno della politica nel contrasto a Cosa Nostra, consapevole che da solo non poteva raggiungere i vertici delle complicità nonostante le rivelazioni dei primi pentiti. Al contempo, politici onesti come Orlando desideravano una sollecita azione giudiziaria che scontava i tempi e le regole dell’investigazione che richiedono prove solide per non dissolversi in dibattimento.
Su questo punto si verificò un fraintendimento tra Falcone e Orlando, sebbene le contestazioni di quest’ultimo erano prevalentemente riferite ad alcuni uffici giudiziari e in particolare al Capo della Procura Pietro Giammanco.
Falcone e Orlando combattevano la medesima battaglia da fronti e con ruoli diversi. Entrambi, accusati di protagonismo, incarnavano un impegno comune piuttosto inedito contro la mafia.
A chi insiste nel ricordare ancora oggi il loro “scontro” ricordo le parole di Paolo Borsellino, pronunciate il 25 giugno 1992 alla Biblioteca Comunale di Palermo, tre settimane prima della strage di via D’Amelio. Seduto accanto a Orlando Borsellino parlò di Falcone a cui era legatissimo, umanamente e professionalmente, tutta la sera definendo Orlando, con voce chiara e decisa, “il mio amico Luca Orlando”.
‘Avvoltoi’
È impensabile che Borsellino avrebbe usato una simile espressione, o condiviso quel momento, se fosse rimasta anche solo l’ombra di una divergenza fondata sulla ostilità tra Orlando e Falcone.
In un capitolo dal titolo “Avvoltoi” del libro “Enigma Palermo” Orlando espone e documenta puntualmente l’intera vicenda, esprimendo rammarico per i toni da lui usati determinati dalla tensione di quei tempi confermando, però, la necessità della politica di chiedere comunque la verità storica e di denunciare non semplicemente la mafia che spara, ma pure le istituzioni deviate, i politici complici, i gruppi eversivi e massoni che fanno della mafia un sistema criminale di potere.