Mafia, alla sbarra il clan Sangani: chiesti 33 rinvii a giudizio

Mafia, alla sbarra il clan Sangani: chiesti 33 rinvii a giudizio NOMI

L’udienza preliminare a carico degli esponenti del gruppo che sarebbe stato capeggiato da Turi Sangani, con due figli e un nipote.

RANDAZZO. Imprese nella morsa del racket, vagonate di droga in giro per le strade e l’imposizione di un potere sanguinario, opprimente e iniquo. La mafia a Randazzo segue un modello che i Santapaola-Ercolano hanno esportato in mezza Sicilia. Un cliché, quasi una specie di franchising criminale, che non muta di una virgola se ti trovi a Randazzo o a Barrafranca, nel centro di Catania o a Misterbianco. E non cambia nulla, ovviamente, se il referente diretto non si chiama Santapaola ma Laudani.

Il prossimo 6 marzo saranno alla sbarra in 33 tra presunti appartenenti o avvicinati, in qualche modo, al clan dei Sangani, uno dei gruppi che storicamente comandano a Randazzo sotto il potere dei “mussi i ficurinia”, dalla storica aggettivazione affibbiata negli ambienti al gruppo dei Laudani, sin dai tempi del capostipite Sebastiano, classe 1926, deceduto. È l’udienza che segue l’inchiesta Terra Bruciata, coordinata dalla Dda di Catania.

Secondo gli inquirenti, in pratica, vista la prolungata detenzione di Oliviero Sangani, a comandare in città sarebbe stato suo fratello Salvatore, uscito dal carcere nel 2008, con i due figli Francesco e Michael, e con l’aiuto del nipote trentaquattrenne Samuele Portale. Turi Sangani, in sostanza, sarebbe divenuto il capo, assumendo un ruolo importante, in grado di fargli sentire addosso i ranghi del capo e pretendere obbedienza. Come dice durante le intercettazioni: “Io non mi devo bisticciare con nessuno… si fa come dico io e basta!”.

Per la Dda, i Sangani avrebbero un’organizzazione presente e forte, i cui capi sarebbero rappresentanti in città del clan Laudani. Qui il gruppo utilizzerebbe il metodo mafioso per commettere “una serie indeterminata di delitti contro la persona e il patrimonio (tentati omicidi, estorsioni, minacce, danneggiamenti), nonché di reati in materia di armi, perpetrati al fine di mantenere i rapporti di forza nel territorio, di controllare le attività economiche e politiche locali, di assicurare il sostentamento economico degli affiliati detenuti, di condizionare il libero esercizio del voto in occasione di consultazioni elettorali, per la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, per sé e per altri”.

Le richieste di rinvio a giudizio, per cui si aprirà lunedì 6 marzo l’udienza preliminare dinanzi al Gup Stefano Montoneri, dopo che il Pm Assunta Musella ha chiesto il rinvio a giudizio, riguardano Sangani e i due figli Francesco e Michael, poi Samuele Portale, Salvatore Bonfiglio, Daniele Camarda, Christian Cantali, Giuseppe Costanzo Zammataro, Salvatore Crastì Saddeo, Giovanni Farina, Francesco Gullotto, Vincenzo Gullotto, Vincenzo Lo Giudice, Antonio Tonno Lupica, Alfredo Mangione, Pietro Pagano, Marco Portale, Francesco Rapisarda, Fabrizio Rosta, Salvatore Russo, Giuseppe Sciavarrello, Remo Arcarisi, Vincenzo Calà, Michele Camarda, Marco Saddeo Crastì, Francesco Paolo Giordano, Leonardo La Rosa, Daniele Lo Giudice, Giuseppe Palermo, Simone Puglia, Rosario Sebastiano Sorbello, Salvatore Trazzera e Nunzio Urzì.

Tra i pentiti che hanno parlato del clan vi è Carmelo Porto, ex boss del clan Cintorino, che ha cominciato a parlare nel 2019 e che per l’appunto, essendo un boss, è ritenuto particolarmente attendibile: “Ho sentito parlare dei Sangani come famiglia mafiosa presente nelle zone di Randazzo come referente dei Laudani – ha detto ai magistrati -. Con loro tuttavia non ho mai avuto rapporti perché, come già detto, mi rivolgevo direttamente ai vertici di Piedimonte Etneo i quali erano in posizione di supremazia rispetto a tutte le locali articolazioni. Voglio precisare che essendo io apicale mi rivolgevo solo ai reggenti e non avevo rapporti con i ragazzi”.


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