La presenza di Laura Bonafede, la maestra di Castelvetrano finita in carcere, è una costante nella vita di Matteo Messina Denaro che le dedica diverse pagine. Racconta di incontri furtivi, senza fare riferimento al luogo. Una cosa è certa, si sono visti più volte: “ci guardammo e le lacrime dei suoi occhi sono un riflesso di quelle che inumidiscono i miei”.
La solitudine sembra avere preso il sopravvento. Alla figlia dice di sentirsi “solo come un uomo abbandonato in fondo a un pozzo buio”. Gli manca la famiglia, non per forza quella di sangue. Concorda con Laura Bonafede che gli aveva scritto in una lettera, fra marzo e aprile 2015, che “eravamo una famiglia lo disse blu (il soprannome della maestra ndr), hai detto bene, hai detto giusto, hai detto la verità”. Gli investigatori sono convinti che i due, assieme alla figlia della donna, Martina Gentile, abbiano addirittura convissuto per un periodo sotto lo stesso.
In un altro passaggio si autoincensa. Le sue qualità: “intelligenza, cultura, educazione, ampiezza di vedute sensibilità e generosità”.
Messina Denaro è stato un uomo con una grande considerazione di sé. Le difficoltà della vita lo hanno temprato, così diceva. La sua “esistenza rischiosa” gli ha consentito di “volare come un’aquila”.
A fortificarlo, confessa, sono stati anche i guai giudiziari. Il capomafia ritiene di essere una vittima della giustizia: “ho subito qualsiasi tipo di processo, il processo alle intenzioni e se ciò non bastasse ho anche subito il processo alla probabilità di una intenzione”, ma la sua vita ha avuto “l’ascesa e il declino che si confanno ai veri uomini”.
In alcune pagine del 2015, però, sembra pensare con nostalgia al passato. Ha perso potere e prestigio. Racconta della sua vita sul filo del rasoio. Il suo modello è stato il padre, “un uomo di azione e di coraggio”, ma ammette che iniziato il suo declino. Si scaglia contro i “molti che hanno abusato di me e del mio nome, la mia assenza ha dato coraggio ai vigliacchi di potermi offendere impunemente”.
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