Mafia, nuovo pentito a Porta Nuova | Tremano i clan palermitani - Live Sicilia

Mafia, nuovo pentito a Porta Nuova | Tremano i clan palermitani

Danilo Gravagna, neo collaboratore di giustizia

Da alcuni giorni Danilo Gravagna, 36 anni, vive sotto protezione in una località segreta. Ha scelto di saltare il fosso, di lasciarsi alle spalle il suo passato di uomo al servizio della famiglia mafiosa di Palermo Centro, mandamento di Porta Nuova.

LE RIVELAZIONI
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PALERMO – Prima rapinatore, poi esattore del pizzo, infine pentito. Ecco la parabola del nuovo collaboratore di giustizia Danilo Gravagna. Da alcuni giorni Gravagna, 36 anni, vive sotto protezione in una località segreta. Ha scelto di saltare il fosso, di lasciarsi alle spalle il suo passato di uomo al servizio della famiglia mafiosa di Palermo Centro, mandamento di Porta Nuova. Una scelta resa nota nel corso del processo denominato Reset che vede alla sbarra presunti capi e gregari delle famiglie mafiose di Bagheria, Santa Flavia, Casteldaccia, Villabate e Porticello. Dunque, Gravagna, è pronto a svelare retroscena che partono da Palermo e arrivano in provincia.

Sono anni che non si registrano collaborazioni nel clan che domina la grossa fetta centrale della città di Palermo, spingendosi fin dentro il porto. L’ultima è stata quella di Monica Vitale, compagna di Gaspare Parisi, uomo forte a Borgo Vecchio. Molte delle cose raccontate nel 2011, la donna le aveva sapute dal compagno, oppure stando a contatto con gli altri mafiosi. Gravagna, invece, è uno che si è sporcato le mani. Innanzitutto è stato arrestato, nel 2013, con l’accusa di avere fatto parte di una banda di rapinatori che assaltava i tir appena sbarcati dalle navi. In alcuni casi Gravagna, titolare egli stesso di una società di trasporti, simulava di essere rimasto vittima di un colpo per giustificare agli occhi della committenza e degli investigatori la sparizione della merce. Per la storia delle rapine Gravagna aveva deciso di patteggiare. Mentre si avvicinava la scarcerazione, arrivò la nuova tegola giudiziaria. Nel febbraio scorso gli contestarono l’estorsione aggravata assieme a Giuseppe La Torre, 64 anni, l’uomo che avrebbe guidato la banda dei tir sgominata due anni prima.

Gravagna aveva atto il salto di qualità. La macchina del pizzo non doveva conoscere stop forzati. E così, arrestati i vecchi esattori, assieme a La Torre, si sarebbe fatto nel segno di quella continuità che è la forza di Cosa nostra. E così avrebbero imposto al titolare di un’azienda di trasporti il pagamento della messa a posto. Per evitare “problemi” era sufficiente pagare cinquecento euro a Natale ed altrettanti a Pasqua. L’imprenditore ha pagato dal 2011 al 2013, poi è stato costretto ad avvalersi, per i trasporti, della ditta dello stesso Gravagna che conosce gli affari illeciti gestiti all’interno del porto, ma pure i segreti del passato e del presente della mafia di Porta Nuova. Una mafia decimata dagli arresti, ma sempre forte e pronta a rigenerarsi.

Tutti i capi sono finiti in carcere – da Tommaso Di Giovanni a Nicola Milano, da Alessandro D’Ambrogio a Tommaso Lo Presti – eppure pochi mesi fa qualcuno aveva affidato a Gravagna il compito di andare a bussare alla porta dell’imprenditore. Ed è un incarico che non si affida al primo che capita. Grazie alla collaborazione di Gravagna si potrebbe rompere il muro di omertà che protegge il rione Borgo Vecchio, crocevia di intrecci mafiosi. Tutte le inchieste degli ultimi tempi sulla mafia palermitana passano dal popolare quartiere. Un piccolo regno, chiuso al mondo esterno, strategicamente importante anche per la vicinanza alle vie del centro città, ricco di vetrine che fanno gola agli uomini del racket.

C’era e c’è grande fermento al Borgo dove i boss, vecchi e nuovi, si sentono al sicuro. Le inchieste Apocalisse, 1 e 2, hanno dimostrato, ad esempio, che nel quartiere erano di casa personaggi come Pietro Magrì, Gregorio e Domenico Palazzotto, oggi al 41 bis perché considerati capimafia dell’Arenella. Per i summit sceglievano una taverna al Borgo pur vivendo dall’altra parte della città. In alcune intercettazioni eseguite durante i colloqui in carcere di Gregorio Palazzotto faceva capolino spesso un nome: “…Vedi che Mimmo… quando ha cominciato a unirsi con me neanche sapeva dov’era la via Oreto… via Roma… Falsomiele… non sapeva neanche le strade, lo portai allo Sperone… e glielo ho dovuto portare tre volte, perché non la indovinava la strada… lui dal Borgo non è uscito mai… hai capito? Non ha avuto mai contatto con i cristiani… cose… anzi un po’ di cristiani glieli ho fatti conoscere io…”. Mimmo sarebbe Domenico Tantillo, considerato “personaggio di spicco della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio” e con cui Palazzotto aveva contatti epistolari.

Sono state le intercettazioni in carcere fra i fratelli Giovanni e Giuseppe Di Giacomo, ergastolano il primo, crivellato di colpi il secondo – ad alimentare il sospetto che proprio dentro il Borgo Vecchio si debba scavare per trovare la verità sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. “…Ma non è che sono stati quelli del Borgo?”, chiedeva Giovanni. “Sì”, rispondeva il fratello. Era il 19 luglio 2013. Per la verità proprio al Borgo hanno puntato le indagini sul caso archiviate nel gennaio scorso. Francesco Arcuri, Salvatore Ingrassia e Antonio Siragusa – arrestati per il delitto e poi scarcerati dopo alterne pronunce giudiziarie – Tommaso Di Giovanni, Gaspare Parisi, Giuseppe Auteri, Antonino Abbate e Giovan Battista Bongiorno (accusato di favoreggiamento) sono usciti puliti dall’inchiesta.

La ricerca della verità prosegue nonostante l’archiviazione. E si concentra sul sottobosco mafioso del Borgo Vecchio, nello stesso contesto in cui si muoveva parte degli iniziali indagati. Alcuni, come nel caso di Abbate, con un ruolo di vertice. Si trova, infatti, in carcere con l’accusa di avere guidato la famiglia mafiosa. Giuseppe Di Giacomo, nel luglio 2013, dunque, sapeva che il delitto era stato deciso da qualcuno del Borgo. Il fratello si chiedeva “ma tu pensi che Spitino non sa niente?”. Spitino è il soprannome di Gregorio Di Giovanni, indicato allora come il reggente del mandamento di Porta Nuova e pure lui oggi in carcere. Per Giuseppe Di Giacomo era impossibile avere la risposta visto che il 26 febbraio 2010, giorno del delitto Fragalà, era detenuto al carcere Pagliarelli.

Il 17 gennaio 2014, dunque in epoca molto più recente, sempre nel carcere di Parma, Giovanni Di Giacomo, stavolta a colloquio anche anche con l’altro fratello Marcello, tornava a chiedere notizie dei tre arrestati Arcuri, Siragusa ed Ingrassia: “…Questi picciutteddi – diceva intercettato – che fine hanno fatto?”. Solo che nel passaggio successivo sembrerebbe citare qualcun altro: “Ma con gli altri picciutteddi?”. “A posto, a posto”, tagliava corto Giuseppe, mentre Marcello diceva: “Niente, niente”. Giovanni rilanciava: “…Ma pure… ma pure sono immischiati?”. “…No… pure (annuisce col capo, annotano i carabinieri)… lo vedi… non senti niente… belli tranquilli”. E ridevano di gusto. Chi sono “gli altri picciutteddi”? Sono davvero coinvolti nel delitto come sembrerebbe emergere dalle parole dei Di Giacomo? Quel “non senti niente” può significare, come dicono gli stessi investigatori, che qualcuno bene informato era rimasto con la bocca chiusa?

Il Borgo, sempre il Borgo, dove la macchina del pizzo non si è mai fermata, nonostante gli arresti. Gli ultimi sono stati quelli di La Torre e Gravagna. Solo che ora Gravagna si è pentito e molti segreti del Borgo potrebbero crollare.

 


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