La picconata alla Trattativa e le due verità inconciliabili - Live Sicilia

La picconata alla Trattativa e le due verità inconciliabili

L'assoluzione di Mannino pesa come un macigno sul troncone principale del processo

PALERMO – Calogero Mannino non fu colui che diede avvio alla trattativa Stato-mafia. È l’incipit del presunto e scellerato patto tra boss e rappresentanti delle istituzioni che crolla sotto il peso della sentenza della Corte di Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale contro l’assoluzione in appello.

Non era un ricorso come tanti. Le assoluzioni di primo e secondo grado impedivano di contestare il merito delle decisioni e così l’accusa ha sollevato davanti ai supremi giudici una questione di legittimità costituzionale.

Si riteneva infatti una disparità fra accusa e difesa il fatto che in secondo grado non fossero stati ascoltati alcuni collaboratori di giustizia. L’articolo contestato era il 603 del codice di procedura penale come modificato ad agosto, che, secondo la procura, avrebbe previsto la possibilità di rinnovare anche in appello, in alcuni casi, l’istruttoria.

In realtà si tratta di personaggi come Giovanni Brusca e Francesco Onorato che pentiti lo sono ormai da decenni, ma su determinati argomenti, compreso il ruolo di Mannino, hanno taciuto. Poi, all’improvviso, hanno ricordato non elementi di second’ordine ma fatti decisivi come il ruolo dell’ex ministro nella trattativa.

Oggi viene meno, e per sempre, l’impianto accusatorio secondo cui, Mannino sarebbe finito nel mirino dei boss. La mafia voleva ammazzarlo perché non aveva rispettato gli accordi ed erano ormai divenute definitive le condanne agli ergastoli del maxiprocesso. E così Mannino chiese aiuto ai carabinieri che avviarono la Trattativa.

Nulla di tutto ciò è avvenuto, come viene ora sancito dalla Cassazione. Diventa definitivo ciò che scrissero i giudici di appello e cioè che l’ex ministro rischiò la vita per il suo impegno antimafia. La stessa Trattativa era stata descritta nella motivazione di appello come un’attività info-investigativa per convincere Vito Ciancimino a passare dalla pare dello Stato. Nulla di settario, ma qualcosa di cui magistrati e politici erano stati informati.

La ricostruzione dell’accusa era stata definita illogica di fronte, alla “acclarata innocenza” di Mannino. La sentenza di oggi pesa come un macigno sull’altro processo ancora in corso in appello dopo che il primo grado in Corte di assiste si è concluso con pesantissime condanne.

Mannino viene scagionato, mentre altri imputati, a cominciare dal generale Mario Mori sono stati ritenuti colpevoli per avere attuato quella trattativa della quale oggi viene meno la genesi. Sono due ricostruzioni inconciliabili.

La vicenda processuale di Mannino, al di là del merito delle accuse, conferma purtroppo la capacità della giustizia si essere ingiusta. Mannino scelse di essere processato con il rito abbreviato, ma il processo chiuso oggi in Cassazione è tutto tranne che abbreviato. Iniziò infatti nel 2013. Senza considerare che Mannino sotto processo c’era già finito per mafia. Sempre assolto, ma da quasi trent’anni veste i panni dell’imputato.


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