“Nella telefonata del 29 gennaio con Antonio Di Nardo non parlavo di Gianfranco Micciché. Quel Gianfranco è un mio amico. Ci siamo dati appuntamento alla Presidenza del Consiglio. Dovevo fare delle commissioni in zona e ci siamo dati appuntamento lì davanti”. Lo dice Mario Fecarotta, l’imprenditore palermitano coinvolto nell’inchiesta di Firenze sulla Protezione civile, in un’intervista esclusiva che sarà pubblicata su “S”, in edicola da sabato 20 marzo: nell’intervista a tutto campo Fecarotta parla dei suoi rapporti con gli uomini-chiave dell’inchiesta che ha travolto Guido Bertolaso, del processo che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e dei suoi rapporti con la Palermo-bene.
Fecarotta non nega di conoscere Micciché: “Non vedo Gianfranco dal 2001 – spiega però l’imprenditore –. Eravamo amici, ci frequentavamo, andavamo a cenare assieme. Quando sono finito in carcere con quelle accuse per mia scelta mi sono tenuto lontano dai miei amici politici”. Fecarotta si dice disponibile a chiarire tutto con i magistrati: “Ma finora – prosegue – nessuno me lo ha chiesto. Non sono stato convocato. Quando e se lo faranno sono disponibile a fornire tutte le spiegazioni del caso”. Anche perché, sostiene l’imprenditore, “se quel Gianfranco fosse stato Micciché non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante”.
Nell’intervista Fecarotta commenta anche l’inchiesta che in primo grado lo ha portato a una condanna a due anni e nove mesi per concorso esterno: “Non sapevo che un sub-appalto fosse finito a un’impresa del figlio di Riina. I miei riferimenti erano persone rispettabili”. Ma lui, garantisce, non ha mai ricevuto richieste di pizzo: “I mafiosi – afferma – sapevano che li avrei sbattuti fuori. Si capisce subito quando uno non vuole avere niente a che fare con questa gente. Il mio certificato antimafia è ancora perfetto”.