Messina Denaro: "Mi volevano morto. Quel boss di Palermo fa schifo" - Live Sicilia

Messina Denaro: “Mi volevano morto. Quel boss di Palermo fa schifo”

Vecchie e nuove storie di mafia. Disprezzo per le "canaglie"

PALERMO – “Canaglie”, “gentaglia”: Matteo Messina Denaro era sprezzante quando parlava degli altri mafiosi. Salvava qualche pezzo da novanta della vecchia generazione, mentre i nuovi boss non meritavano il suo rispetto.

“Mi hanno cercato tutti”

Nel corso dell’interrogatorio del 7 luglio scorso il padrino trapanese ha messo a verbale: “Mi hanno cercato tutti perché io sono sempre stato in quello che voi ritenete mafiosità, io ritengo nel mio mondo, una garanzia, ma la garanzia per tutti. Non ho mai rubato niente a nessuno, mai, parlo del mio ambiente. Non ho mai cercato di fregare nessuno, né in ascesa di potere né per soldi e neanche per altro. Poi negli ultimi tempi è normale che mi sono schifato“.

“Brusca e Ganci mi volevano ammazzare”

Ed ecco la presa di distanza, dopo un passaggio che affonda la radici nel passato. Ha avuto dei nemici? “… è normale perché Giovanni Brusca stesso dice che mi voleva ammazzare, Raffaele Ganci mi voleva ammazzare… tutti abbiamo nemici… mi sono schifato perché avete portato voi a schifarmi, non potete arrestare dei menomati che passano per mafiosi, senza offendere i menomati”. Il riferimento è ai recenti arresti: “Cioè quando cominciate a prendere basse canaglie, gente a cui non rivolgevo nemmeno il saluto e li arrestate per mafiosità allora in quel momento il mio mondo è finito, proprio finito raso al suolo totale. Non ce n’è più”.

Fa un nome in particolare, convolto nel blitz denominato Hesperia: “Uno si chiama Pietro Stallone soprannome micarìa, un altro lavorava in una pizzeria, non lo salutava nessuno in paese, queste persone vengono arrestate per mafiosità… il mio mondo viene trasfigurato cioè non una metamorfosi normale è proprio una cosa indecente”.

“Quello fa schifo”

E a Palermo? “Forse su Palermo di più (nel senso di degrado ndr)… le faccio un esempio uno che gli dicono Gino ‘u mitra di soprannome (Luigi Abbate, boss del rione Kalsa ndr) fa più schifo di qualcuno che lo ha generato e lo fate passare per mafioso”. A Palermo si recava spesso: “Che vita facevo a Palermo? Libero come quella di Campobello, perché bene o male voi avete scandagliato quella di Campobello (il paese in cui ha trascorso gran parte della latitanza ndr), ma in genere sempre quella vita faccio, cioè lo stesso fac-simile. Le mie amicizie non è che iniziano e finiscono solo nel mondo che voi considerate mafioso, non è così, le mie amicizie erano dovunque”, aggiungeva.

Il sequestro Fiorentino

In un passaggio dell’interrogatorio il boss faceva riferimento “al sequestro Fiorentino (nel 1987 fu rapito il gioielliere Claudio Fiorentino ndr)… in questo processo tutti i pentiti escludono me e mio padre, anzi escludono mio padre e me. E mio padre era considerato il capo della provincia di Trapani… era stato nascosto a Mazara del Vallo e sia mio padre che io non ci siamo entrati in questa situazione”.

Ha tirato in ballo questa vecchia storia per spiegare che “c’erano modi e modi di uno estraniarsi da una certa situazione o da una certa amicizia, c’era la situazione che io mi estraneo da lei e lei mi ammazza e c’era invece la situazione che io mi estraneo da lei però senza che succeda nulla…. che senso ha andarsi a scontare con un treno?… allora cerco il modo di svincolarmi, i soldi ve li fate voi”.

Il gruppo Riina

Con chi evitò di soccombere sapendo che avrebbe avuto la peggio? “Tutto il gruppo Riina… è una stupidità a dire non siamo amici o non ci conosciamo, è una grande stupidata perché l’ho detto (in un precedente interrogatorio ndr) lo so che il dottore Guido (il procuratore aggiunto Paolo Guido ndr) non ci ha creduto nemmeno per un nanosecondo però non è scritto da nessuna parte che debbo dire le mie cose giusto'”.


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