ADRANO (CT) – Continuava a chiedere della mamma, non riusciva a tenere la mascherina, non capiva cosa le stesse accadendo. In trentadue anni Valeria Scalisi non era mai stata sola, e da sola si è ritrovata in terapia intensiva. Con la sindrome di Down. Perché per una persona disabile avere il coronavirus è un dramma nel dramma. “Valeria è morta così, senza nessuno accanto”. Parla con voce squillante e decisa, la sorella Giusi Scalisi, ma le sue parole non nascondono il dolore di un’intera famiglia di Adrano. “Ha passato tre giorni senza un parente al suo fianco, e per noi è difficile accettare che tutto questo possa succedere a una persona incapace di intendere e di volere”.
La febbre e il tampone
Tutto è iniziato il 13 novembre con una febbre leggera e non troppo allarmante, la prima forma sotto cui spesso si presenta l’insidiosa malattia. “Questa febbre è durata più o meno un giorno – spiega la sorella di Valeria – e quella sera stessa abbiamo chiamato il 118 per avere informazioni su come comportarci. Ci hanno prescritto delle medicine da darle direttamente in casa”. Col passare delle ore però Valeria peggiorava e lo spettro del virus si faceva sempre più concreto: “La febbre era sempre più alta e respirare le riusciva sempre più difficile. “Quindi il medico di base ha disposto il tampone rapido, che è risultato positivo”.
“Nessun familiare in ambulanza”
Giusi Scalisi ricorda che “quando è arrivata l’ambulanza, il 14 novembre intorno a mezzogiorno, non è stato concesso a nessuno di salire a bordo come accompagnatore di Valeria. Nessun familiare al fianco di una persona con la sindrome di Down, che non ha mai potuto fare niente in totale autonomia. Com’è possibile? Legalmente l’accompagnatrice risulta mia madre che si sentiva assolutamente in condizioni di andare, così come me e le mie sorelle. Abbiamo pregato i sanitari, ma non c’è stato verso”.
“Ricoveratemi con lei”
La solitudine di Valeria Scalisi è continuata anche durante il ricovero nel reparto Covid del Policlinico di Catania. “Non c’è mai stato modo di starle vicino. Nei giorni si è aggravata e ha iniziato a collaborare sempre meno, non indossava più la mascherina e non voleva reggere con le mani il dispositivo per l’ossigeno. Perciò i sanitari hanno dovuto sedarla. In tutto questo – aggiunge – io nella disperazione ho anche chiesto di essere ricoverata con lei, visto che sono risultata positiva asintomatica il giorno stesso del suo ricovero. Mi ero offerta di reggerle io quell’ossigeno, ma non è stato possibile”.
Il trasferimento e il “mondo addosso”
Al quarto giorno, da quello che risulta a Giusi Scalisi, il reparto Covid non era più il luogo adatto a trattare le condizioni di salute della 32enne. “Dopo tre giorni è stata appunto sedata, poi abbiamo saputo del trasferimento in terapia intensiva. Da quel momento c’è stata tanta confusione nella comunicazione con l’ospedale, quando chiedevo ai sanitari come stesse mia sorella mi dicevano solo: ‘Signora, non collabora e chiede sempre della mamma’. Finche il 26 novembre è arrivata la notizia della morte e ci è crollato il mondo addosso. Valeria non è mai stata sola in 32 anni, per noi era una bimba. La piccola di casa. Ormai Valeria non c’è più, ma sto raccontando questa storia perché possa servire a tutti – conclude la sorella con tono fermo –. Perché ci si renda conto che nonostante l’emergenza non si possono lasciare sole delle persone disabili, impotenti e fragili”.
Medici in prima linea
Valeria è stata ricoverata nel Policlinico di Catania, punto di riferimento sanitario nella lotta al coronavirus. L’azienda, contattata da LiveSicilia, rinnova la propria “vicinanza al dolore della famiglia”. Un caso delicato quello di Scalisi, che purtroppo è stata intubata per fare tutto il possibile contro questo terribile mostro. Perché il familiare di una persona disabile non può entrare in terapia intensiva? “Per ragioni di sicurezza – fanno sapere dall’ospedale – in una rianimazione covid non possono entrare i parenti, neanche quelli stretti, a loro tutela e a tutela degli altri ricoverati, che lottano tra la vita e la morte”.
Il comitato: “Viviamo terrorizzati”
A raccogliere per primo il grido d’aiuto della famiglia Scalisi è stato il comitato Siamo handicappati no cretini. Il direttivo del comitato menziona un rapporto dell’Istituto superiore di sanità che, fra le altre cose, detta le linee guida per l’ospedalizzazione di persone con disabilità intellettiva affette da Covid. “Nel corso del ricovero – si legge nel documento – particolare attenzione andrà dedicata all’utilizzo di modalità di comunicazione e gestione adeguate ai bisogni della persona, alla presenza di un caregiver adeguatamente formato e con adeguati dispositivi di protezione individuale e, ove opportuno, all’utilizzo di appropriati e programmati interventi farmacologici per la gestione dell’angoscia, del dolore, della fatica respiratoria della persona, nell’ottica di alleggerire al massimo il sovraccarico per la persona e diminuire i rischi per la persona e per il contesto”.
“Siamo in tanti ad avere un disabile gravissimo in casa, e viviamo terrorizzati – spiegano dal comitato –. Abbiamo sempre la paura di vivere una tragedia nel caso in cui il Covid contagiasse i nostri cari e non trovassimo sanitari di buon senso, convinti di dover dare al caregiver la possibilità di assisterli. In questi casi i protocolli lasciano alla ‘discrezionailtà’ del sanitario, per cui bisogna avere la fortuna di incappare in un apparato organizzativo che preveda certe evenienze e che sappia come agire. È assurdo che una cosa così essenziale venga lasciata al ‘buon senso’ – concludono i fondatori di Siamo handicappati no cretini – e che non vi sia un protocollo che obblighi i sanitari a equipaggiare il caregiver e farlo partecipare a tutte le procedure con il paziente disabile gravissimo. Che chiaramente, appena non vede accanto a sé un volto amico, subisce un crollo psicologico inevitabile”.
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