Se fai il cronista a Palermo può capitarti di crescere a pane e cadaveri. La capacità di morire, di essere ammazzati, di perire in un incidente stradale, è vastissima. Le prime volte ti aiuti con l’inganno degli occhiali scuri, resisti al pianto inviso al cinismo del taccuino. L’arrivo di una madre al capezzale del corpo del figlio è sempre un’irresistibile fonte di lacrime. Poi, se continui a fare il cronista a Palermo, impari a seppellire il cuore in una buca. E lo dimentichi lì. Dopo tanti anni di pane e cadaveri, cos’è, allora, questo brivido aguzzo davanti all’asfalto che ha visto morire l’avvocato Enzo Fragalà? Saranno le bastonate crudeli. Sarà il sorriso dell’avvocato, spento da una ferocia immane. Sarà il suo proverbiale attaccamento alla vita. Qualcosa sarà se quella morte continua a gridare a perdifiato. Se continua a sfondare da una parte all’altra del petto, col marchio gelido del suo dolore e della sua iniquità. Non c’è che la memoria, con la sua fragile tenerezza, per tentare di contrastare la marcia di un veleno così penetrante.
E’ trascorso un mese dalla fine dell’avvocato, dai colpi che hanno spezzato l’illusione di una Palermo buona e mai belluina. Le luci del Palazzo di giustizia raccontano una violenza spettrale in un pomeriggio di grigia primavera. Non c’è che una breve salita di scalini, fino alla stanza dell’avvocato Marzia Fragalà, figlia di Enzo, custode della memoria, del solo balsamo che può lenire la profondità delle ferite.
Marzia ha i capelli di un biondo tenue. Ha gli occhi come un mare lontano, che si avvicina e diventa onda sonora, mentre lei parla. La risacca della voce porta a riva frammenti spersi dello stesso volto, dello stessa storia, dello stesse intimità familiari smarrite.
“Sì. Dalla sera dell’aggressione abbiamo avvertito la vicinanza di tante persone. Un flusso continuo in ospedale: gli amici, gli elettori, i conoscenti. L’amore ci ha consolato un po’, ha fatto sì che tutti noi ci sentissimo meno soli. Tutti volevano bene a mio padre. Era generoso e disponibile. Era un uomo segnato dalla sua bontà, da suo desiderio di vivere”.
In che fase è la sua elaborazione del lutto?
“Non riesco a metabolizzare il dolore. Non riesco a orientarmi. Galleggio, sono incredula, non so capire. Mi sposo a giugno. Questo doveva essere il tempo della gioia attesa di un evento. Papà ci teneva molto, non stava più nella pelle. Gli piacevano le feste. Amava essere felice”.
Una felicità che qualcuno non ha perdonato.
“Non so chi possa essere stato. Non riesco nemmeno a immaginarlo. Hanno detto: qualche cliente insoddisfatto. Mi sembra impossibile. Enzo Fragalà era amato dai clienti, era – lo ripeto – un uomo generosissimo, difendeva gli altri per convinzione, per passione del suo mestiere. Nessuno gli voleva male”.
L’assassino è ancora libero. Lo prenderanno?
“Ho fiducia nella giustizia. I magistrati che si occupano del caso sono molto preparati, come i carabinieri che conducono le indagini. Sì, sono fiduciosa”.
E lei, Marzia?
“Io continuerò sulla strada tracciata da mio padre. Lui portava avanti le cose in cui credeva. Seguirò il suo esempio”.
Quella sera.
“Ci siamo incontrati a pranzo. Papà mi ha detto: vado in carcere, a stasera. La sera avevo il telefono spento, ero al corso prematrimoniale. L’ho riacceso, pioggia di sms: corri, hanno aggredito papà. Ho pensato a una rapina, sul momento”.
Perché?
“Perché il garage dove posteggiava era insicuro, c’erano stati dei furti. Avevo consigliato a papà di cambiare zona, di parcheggiare la macchina da un’altra parte”.
Cosa racconterà a suo figlio, un giorno, quando le chiederà notizie del nonno che non c’è?
“Gli dirò la verità. Gli dirò che nonno Enzo era un uomo buono e che adorava la vita”.
E sull’ultima parola “vita” la risacca della voce di Marzia si appoggia come per non spezzarsi. Gli occhi cambiano colore. La dolcezza ha pagato il riscatto. Ha trasformato in tenerezza l’orrore.