"Non ho creato corsie preferenziali | Sotto accusa per la mia efficienza" - Live Sicilia

“Non ho creato corsie preferenziali | Sotto accusa per la mia efficienza”

Pierenrico Marchesa

Pierenrico Marchesa, luminare della chirurgia, è al centro di un'indagine. Avrebbe dirottato pazienti dal privato al pubblico, creando percorsi ad hoc. Lui si difende e ne ha per tutti. Anche per certe scelte della sanità siciliana.

Lo sfogo di Pierenrico Marchesa
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PALERMO – “La giustizia faccia il suo corso. Deve fare il suo corso. Io resto sereno. Le dico che è una tempesta in un bicchiere d’acqua e non ci vorrà molto per dimostrarlo”.

Pierenrico Marchesa non sembra per nulla turbato dell’inchiesta che lo vede coinvolto. Eppure i carabinieri del Nas e la Procura di Termini Imerese lo accusano di avere dirottato i pazienti dalla struttura privata con cui collabora a Palermo all’ospedale San Raffaele Giglio di Cefalù dove dirige la Chirurgia generale. A loro avrebbe garantito una corsia preferenziale e, soprattutto, veloce. In barba alle liste di attesa e alla valutazione dell’urgenza dei casi. Su questo punto il flemmatico chirurgo, venuto in Sicilia dal lontano Piemonte, si surriscalda: “E’ un’ipotesi che rigetto in maniera assoluta. I malati che hanno ricevuto una prestazione sanitaria con sollecitudine avevano un’esigenza clinica grave. Bisognava fare in fretta”.

Per la verità non è l’unica questione investigativa in ballo. Si ipotizza pure che per accelerarne il ricovero potrebbe avere preteso denaro dai pazienti.
“Ed è un’ipotesi altrettanto infamante. Infamante e falsa. Non credo sia necessario aggiungere altro”.

E quella che avrebbe scaricato sui conti dell’ospedale di Cefalù le spese per i pazienti curati privatamente?
“Per rendere bene il mio pensiero bisognerebbe dire che è una minchiata, ma è meglio dire che è una calunnia per la quale ritengo opportuno che i miei avvocati si muovano per tutelarmi” (dice rivolgendosi agli avvocati Raffaella Geraci, Roberto Tricoli e Carmelo Piazza, i primi a sostenere con forza e convinzione l’estraneità ai fatti del loro assistito ndr).

Lei respinge ogni accusa, ma allora qual è la realtà. Cosa è successo?
“Credo che la mia efficienza e la mia instancabilità possano avere messo in soggezione l’ospedale, forse abituato a ritmi diversi, più sonnacchiosi. Io ho il dovere di valutare i pazienti dal punto di vista clinico. Nessuno può sindacare sul diverso peso clinico di un paziente affetto dal cancro del colon da quello di un soggetto che ha una patologia meno grave. Fa parte della discrezionalità di un professionista. È chiaro che ho anche la mia attività privata, ma la valutazione clinica dei pazienti è stata fatta in maniera egualitaria. L’urgenza era indipendente dal fatto che i pazienti si fossero rivolti a me privatamente o che fossero presenti in ospedale, oppure arrivassero da altre strutture sanitaria. Non esistono i canali preferenziali”.

Lei parla di “soggezione” o forse voleva dire invidia?
“Spesso queste cose accadono perché animate da un pizzico di invidia. O forse semplicemente il sistema è stato messo sotto pressione. Forse non era preparato a questo tipo di attività”.

Cosa è lo stress del sistema, in cosa si concretizza. Si misura forse con il numero degli interventi eseguiti?
“Il numero degli interventi si è anche ridotto, ma non è questo che conta. Un intervento di resezione pancreatica dura sette ore. È chiaro che nello stesso arco temporale si possono fare sette interventi di ernia. Quello che conta è la qualità della prestazione offerta”.

Cosa fa, sposta la causa dei suoi guai dall’invidia dei colleghi alle scelte aziendali: forse non conviene perseguire l’eccellenza?
“Quello che lei dice è una cosa grave, perché significherebbe che la politica sanitaria preferirebbe la quantità alla qualità. E chi ha problemi seri, cosa fa, deve andare altrove? La chirurgia oncologica non è fatta per migliorare i bilanci, ma un sistema sanitario efficiente si misura anche sulla capacità di offrire prestazioni di qualità. Se ad un paziente diagnosticano un timore al pancreas che fa? Si muove e cerca di capire dove può ricevere un certo tipo di prestazione. Non si preoccupa di quanto costi l’intervento, ha bisogno di trovare qualcuno che risolva il suo problema. E se non andassimo incontro a questa esigenza creeremmo una discriminazione sociale”.

Posso chiederle quale giro ha fatto per arrivare da Torino a Cefalù?
“Arrivo a Palermo nel novembre del 2001 all’ospedale Civico. Avevo studiato a Torino dove ho iniziato a lavorare. Mi sono specializzato a Milano e Pavia, e poi a Parigi e Cleveland negli Stati Uniti. Al Civico mi viene offerta l’opportunità di diventare primario. Ero perplesso, ma alla fine sono salito sul Treno del Sole. Al Civico subito ho avviato una collaborazione con l’Ismett in virtù della mia esperienza al Centro trapianti di fegato a Torino. Una collaborazione che mi ha consentito di portare avanti il progetto del prelievo del rene da donatore vivente con la tecnica laparoscopica. Sono stato il primo a farlo in Sicilia, nel 2002, in collaborazione con il professore Maurizio Romano del Policlinico. Nel 2005 mi dimetto dal Civico e vado a lavorare solo per l’Ismett. Nel 2007 torno al Civico per dirigere la Chirurgia oncologica. Nel 2009 mi propongono di andare a lavorare all’Humanitas e decido di trasferirmi a Milano anche per ragioni familiari. A Milano ho valutato in maniera concreta il fenomeno dell’emigrazione sanitaria. Centinaia di pazienti in un anno sono venuti dalla Sicilia per essere operati da me. Un fenomeno trasversale, dal professionista alla gente comune e umile che affrontava grosse difficoltà economiche. Ad un certo punto prendo contatti con il San Raffaele Giglio e mi dicono che aveva preso concretezza il progetto del polo oncologico a Cefalù. E ho accettato. Devo dire che a distanza di tre anni ritengo che la realizzazione del progetto sia stata insufficiente. C’è un reparto di oncologia clinica con validi professionisti, ma è rimasto irrisolto il rapporto fra il ruolo territoriale dell’ospedale, che è necessario e mi sembra sia voluto dalla popolazione e dall’assessorato, e l’obiettivo di raggiungere l’eccellenza. Insomma, non sono venuto a Cefalù per togliere calli, foruncoli ed ernie. Per carità anche queste patologie non vanno sottovalutate, ma la mia specializzazione è altra. Se ti serve un centravanti non lo metti a giocare in difesa”.

Si è dato un spiegazione di queste scelte aziendali.
“Io ritengo che ci sia poca chiarezza su quello che deve essere l’indirizzo della politica sanitaria. In altre regioni sono stati chiusi ospedali che erano pochi efficienti. In alcun Stati europei si privilegia la centralizzazione di alcuni servizi di chirurgia perché si è visto che migliorano gli esiti degli interventi. È vero che non si possono applicare in Sicilia regole che valgono in altre regioni, perché qui ci sono grossi disagi nei collegamenti, ma non serve neppure arroccarsi su posizioni di difesa territoriale. E questo vale anche per la chirurgia a Cefalù”.

Lei si farebbe curare in Sicilia?
“Da chirurgo siciliano di adozione, e conoscendo altre realtà chirurgiche, ad esempio nel Catanese, ritengo ci siano dei centri validi”.

Posso chiederle quali sono i rapporti con la dirigenza del San Raffaele. Quando il suo studio venne perquisito il commissario straordinario della Fondazione, Nenè Mangiacavallo, disse che le indagini “fanno seguito a delle iniziative e a una segnalazione della Fondazione”.
“Devo dire che sono rimasto sorpreso e amareggiato dalle dichiarazioni, sempre che siano vere. Ritengo che in un rapporto corretto fra l’amministrazione e un professionista, se esistono difficoltà, ci si dovrebbe confrontare”.

Qui si parla di reati, però.
“Io svolgo in maniera regolare la mia attività. La macchina della giustizia deve fare il suo corso, sono sereno e fiducioso nel lavoro dei magistrati, che valuteranno in maniera obiettiva e serena la realtà dei fatti che sono inesistenti. Ho chiesto subito di essere sentito. Sono pronto a rispondere su tutto”.

Un chirurgo sotto inchiesta può restare sereno nel suo delicato lavoro?
“Le posso dire che il giorno stesso della perquisizione ero regolarmente in sala operatoria per affrontare un intervento chirurgico particolarmente complesso per l’asportazione di una neoplasia nella vena cava inferiore. Non ci sono molti chirurghi in Sicilia in grado di eseguire questo tipo di intervento. E non ho avuto alcuna difficoltà. Resto sereno, è ovvio che in una situazione del genere viene da pensare perché devo stare qui a combattere. Poi ricevo lettere del genere (tira fuori una missiva di un ingegnere che lo ringrazia per le sue qualità umane e professionali e lo invita a tenere duro ndr) e allora vado avanti. Non sono uno che demorde”.

Marchesa fa una pausa. Si alza e torna nella stanza con una confezione di confetti. Di colore azzurro. E inizia a raccontare: “Lo scorso autunno ho operato una donna incinta per una neoformazione retroperitoneale di 18 centimetri. Nonostante si fosse pensato di farla abortire, l’abbiamo operata e ha portato a termine la gravidanza. È stato un intervento a cui si sono interessate alcune pubblicazioni scientifiche. Mi ha mandato i confetti. È nato un bel bimbo. Pesa più di quattro chili e sta bene”.


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