Ore di attesa e 'la battaglia navale': una mattina al Cup di Villa Sofia

Ore d’attesa nella ‘battaglia navale’: una mattina al Cup di Villa Sofia

La lunga e disagevole giornata nella sanità pubblica

PALERMO- Una signora, che funge da speaker improvvisata, urla con la voce resa stentorea dall’attesa: “D 1!”. Non può mancare il solito spiritosone che risponde: “Colpito e affondato!”. Si ride per non disperarsi, al Cup di Villa Sofia, con i numeri del turno declamati dalle stesse persone in coda, nelle prime ore di un giorno bello e assolato. Si annunciano lettera e numero, gridati con timbro pavarottiano, per superare il rumore circostante, e con modalità che ricordano una sorta di pubblica battaglia navale degli anni passati.

Ma qui nessuno è intervenuto per giocare. Sono tutti sofferenti, o parenti di sofferenti, che devono prenotare visite ed esami. C’è una signora con una stampella, appoggiata al muro, perché le sedie risultano occupate. C’è un signore anziano con il suo girello. Ci sono tanti che non dovrebbero essere qui, eppure, sono qui perché non hanno nessuno che possa starci al posto loro. Di fianco il viavai di ambulanze al pronto soccorso: cinque mezzi manovrano nello spiazzale.

Il turno e le urla

Al Cup non si intravvedono display performanti. C’è la macchinetta sputa-bigliettini. Ma come fai a sapere quando tocca a te? Gli stoici impiegati gridano anche loro, per farsi sentire. Per fortuna siamo a Palermo. Ogni caos offre la sua soluzione spontanea. Qualcuno del pubblico in sala, con doti carismatiche da leader e organizzatore, si prende la briga di coordinare le attività. Poi, cede l’incombenza a un successore, scelto spontaneamente per le medesime capacità.

Alle undici e mezza di una mattinata difficile la calca è giunta a metà del turno C che darà spazio a quelli del turno D. Si aspetta parecchio. I rassegnati si mettono le mani nei capelli e vanno via. Gli storici resistono e, infine, avranno ragione. La folla vive di selezione naturale. Gli abbandoni sono salutati con occhiate di compiacimento da coloro che rimangono. C’è chi, seduto fuori, si accorda con chi sta dentro: “Me lo dice quando sono vicino? Poi le offro il caffè”. Ognuno cerca di individuare le persone che lo precedono di poco. Quaggiù, nelle discese ripide del sistema, non si sa molto di massimi livelli. Quello che si invoca è uno scivolo, un display, un miracolo, per rimpicciolire il disagio.

La carica del popolo della Sanità

Il turno C è immenso. “Sono qui dalle nove – dice una signora – magari qualcuno va via e mi cede il bigliettino”. Oltre la vetrata, i pazientissimi lavoratori affrontano, con gentilezza e senza scomporsi, la marea che sale. Molti convenuti non sono informati sulle procedure e impegnano il personale in interminabili discussioni. Altri hanno scambiato il Cup per la sala di pagamento del ticket. Quando lo scoprono, non gli fa piacere. C’è un popolo bisognoso di cura che non sa a chi rivolgersi: è il popolo della Sanità Pubblica. Una definizione che accomuna chi combatte dall’una e dall’altra parte della barricata. La signora che prenota sussurra: “Il sistema è complesso”. Ma il sorriso amaro dice molto di più.

Il turno D, alla fine, vince la sua battaglia navale. Pochi e fortunati, perché gli altri hanno rinunciato. All’una la maggioranza è a buon punto. Si prenota la visita, a distanza magari di mesi, e si corre via, felici, come quando suonava l’ultima campanella a scuola. Via, verso la macchina. E si dimentica tutto. Fino alla prossima volta.


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