PALERMO – Il processo è andato in decisione. Quattro anni dopo il sequestro si conoscerà la sorte del patrimonio degli imprenditori Rappa. Confiscato o restituito, con la possibilità, in entrambi i casi, che le difese o la Procura facciano appello contro il giudizio di primo grado.
Era la fine del mese di marzo 2014 quando scattò la misura di prevenzione per una sfilza di società e beni immobili stimati in 800 milioni di euro. Non era un sequestro come gli altri alla luce del coinvolgimento di una delle famiglie più conosciute della città, ma presto sarebbe diventato anche uno dei simboli di un’intera stagione giudiziaria.
È infatti dalla concessionaria Nuova Sport Car, anch’essa sotto sequestro, con sedi a Catania e Isola delle Femmine, che partirono le indagini che avrebbero scoperchiato il pentolone maleodorante delle misure di prevenzione. Tra le persone travolte dallo scandalo giudiziario ci sono Silvana Saguto, il magistrato che presiedeva la sezione, e Walter Virga, l’amministratore giudiziario che fu scelto per gestire il patrimonio Rappa. I pm palermitani trasmisero il fascicolo a Caltanissetta quando venne fuori il nome di Saguto.
Un patrimonio costruito partendo dai soldi sporcati dalla mafia o frutto esclusivo delle capacità degli imprenditori? Il cuore della questione ruota attorno a questo interrogativo, a cui i difensori hanno aggiunto il sospetto che il sequestro fosse stato voluto per alimentare il sistema Saguto. Ed invece, la Procura ha sposato a pieno la ricostruzione della Direzione investigativa antimafia che lo aveva inizialmente proposto. Il pubblico ministero Claudia Ferrari ha chiesto, infatti, la confisca dell’intero patrimonio del gruppo e la sorveglianza speciale per Vincenzo Corrado Rappa. Solo lui sarebbe attualmente “socialmente pericoloso”. Nessuna misura personale per gli altri proposti.
I beni dei Rappa – società, aziende, la televisione Trm, concessionarie di pubblicità e auto – sarebbero stati accumulati partendo dalle fortune del nonno Vincenzo, condannato per mafia. Allo scadere del termine massimo di cinque anni dalla morte del capostipite, ecco scattare, nel marzo 2014, il sequestro per gli eredi. Visto che i nipoti di Vincenzo non erano tecnicamente eredi, il Tribunale, due mesi dopo e dunque oltre i cinque anni, ripropose il sequestro facendo ricorso alla formula “eredi di fatto”. La Cassazione bocciò il provvedimento sia per la genericità del termine “eredi di fatto” sia per la tempistica. Nel febbraio 2015 la situazione si complicò. Arrivò, infatti, una nuova misura di prevenzione patrimoniale, stavolta proposta dalla Procura, che riguardava Filippo Rappa (figlio di Vincenzo), e i nipoti Sergio, Vincenzo, Vincenzo Corrado e Gabriele.
Rappa senior era stato condannato, con sentenza definitiva, a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo le accuse, che ressero al vaglio dei tre gradi giudizio, Vincenzo Rappa era la tipica figura dell’imprenditore in affari con Cosa nostra. Aveva seguito la metamorfosi della stessa organizzazione criminale. Quando si occupava ancora solo di edilizia, era uno dei tanti imprenditori costretti a pagare il pizzo. Poi, quando i boss capirono che con il cemento si potevano fare soldi a palate, ecco che il costruttore nativo di Borgetto, come tanti altri, sarebbe diventato uno dei soggetti con cui fare il salto di qualità.
Sul processo hanno pesato i tempi, come sempre lunghissimi, per la perizia disposta dal Tribunale. Perizia complicata anche da un passaggio bancario. Il Gruppo Rappa aveva una forte esposizione debitoria nei confronti delle banche. Nel 2007 la Sicilcassa cedette alla società Finmed di Milano i crediti vantati nei confronti delle società. La Finmed, controllata dalla Med Group, altra società del Gruppo, “comprò” i crediti liberando da ogni vincolo ipotecario e di pretesa di terzi il consistente patrimonio immobiliare. Operazione lecita anche questa, hanno sostenuto i legali, mentre secondo la Procura si tratterebbe di una vicenda molto sospetta visto che Vincendo Corrado decise di non riscuotere il credito.
Adesso la perizia, come tutti gli atti del processo, passano al vaglio decisivo del collegio presieduto da Raffaele Malizia e composto dai giudici Giovanni Francolini e Luigi Petrucci che hanno tre mesi di tempo per pronunciare il decreto: o confisca o dissequestro di un patrimonio che, a differenza di tanti altri, ha continuato a restare vivo sotto la nuova amministrazione giudiziaria, dopo che Walter Virga ha passato la mano.