Palermo che poteva essere | e non è stata mai - Live Sicilia

Palermo che poteva essere | e non è stata mai

La città che ha fallito i suoi appuntamenti. Sul 'Foglio' di oggi. Partendo dal teatro e arrvando, con un sorriso amaro, alla realtà.

Qui si fa l’elogio del ridotto (teatrale) nell’epoca del cinepanettone compiuto. Si fa festa a Salvo Piparo e con lui si rende onore alla messa in scena come apoteosi di ciò che ­– nell’intimità di un corridoio, quello che dal botteghino conduce alla platea, ricavando un altro palcoscenico – attinge alla vena viva dello spettacolo popolare che sarà pure reiterabile ma senza essere riproducibile. Ferroviere in aspettativa, già presidente, socio unico e aderente del Ficarra&Picone fan club, adesso anche attore, Piparo che ha la faccia d’iperbole, lo sguardo del paradosso, la smorfia dello straniamento, la canottiera del “giudizio sospeso”, è il perfetto poeta di strada che ben può proclamare l’annuncio di pace: “Non vi rompo le corna solo perché vi stanno bene in testa”.

Andate pure a farvi i vostri cinepanettoni, ci mancherebbe altro, ma godere il registro di vita – la commozione, la poesia, la fantasia e l’immaginazione (che è cosa diversa) – nel quadrante delle emozioni ritagliato in uno spazio adatto a contenere un fazzoletto di amici, è puro privilegio. Al ridotto, dunque, si rende onore. Un posto dove poter applaudire. Con Costanza Licata, che canta chiassosa e generosa di risate, e con Rosemary Enea che al pianoforte suona tutti gli spartiti adatti alla serietà stralunata dovuta a un luogo delicato e dolce come il Teatro de’ Satiri a Roma (fino al 22 dicembre, affrettatevi) da dove partono Pallonate che Piparo – la cui tonalità teatrale ricorda Peppe Schiera, il poeta tra i poeti di strada – tira come fossero frecce di segni che abitano fuori e dentro di noi; fuori e dentro noi che ce ne stiamo come affacciati a un davanzale per contemplare le sagome e le vaghezze di una confessa gioia, quella dove far riposare l’arte complicata assai del disincanto.

Pallonate è un testo teatrale scritto da Salvo Ficarra e Valentino Picone che ne sono anche registi, hanno messo mano a pezzi scritti per La Repubblica e siccome si dice sempre che nel genio popolare – di puro incanto di popolo e genio qui si tratta – non c’è quasi attribuzione personale, come a voler immaginare una fonte spontanea e anonima, a maggior ragione dico che tutta questa stupefacente materia di compenetrazione, comicità e magia, è il risultato di una identificabile maestria, quella di due riconosciuti autori forgiati dal mestiere e dalle profondità di significati che non possono essere solo istinto, ma scrittura. Altrimenti come spiegare quel mare che si asciuga per andarsene via, alla chetichella, come pure le case, i palazzi, le piazze – tutta una città che a poco a poco, sparisce – mura che facevano altezze e, adesso, sono solo buchi?

Tutta una scrittura surreale, allusiva, ellittica, quella di Ficarra&Picone, e mai – manco una volta, mai – pittoresca, puzzolente, colorata o barocca. Mai. E meno che mai la facilissima poetica della denuncia ma sempre e soltanto la scrittura asciutta, affidata alla faccia di Piparo. E Piparo, poi, che nel preciso istante in cui decide di fare lo “sciopero dei pazzi” convoca in scena il pazzo e con questi – forte di sola voce e canottiera – la folla di una città, Palermo, sempre svelata nel suo destino di pititto che è sì fame ma non poveraccismo, piuttosto quel giudizio sempre sospeso di ciò che questa città poteva essere e non fu. Per non essere mai.

Andate a farvi il vostro cinepanettone ma vi perderete il pezzo sulla munnizza e la patafisica della differenziata degna di Achille Campanile perché certo, un Omero cui riferirsi c’è, ma c’è sempre un poeta di strada a fare il doppio lavoro di aedo e di rapsodo. Peppe Schiera, appunto, ma non è un caso che ci sia Costanza Licata. Questo spettacolo è, infatti, figlio di Salvo Licata. Giornalista de L’Ora, conoscitore della città sotterranea, fu con Antonio Marsala e Luan Rexha il fondatore de “I travaglini”, il primo cabaret di Sicilia dove si divertì e inventò anche il nostro Peppino Sottile. “Quel cabaret”, scrive Rexha in Memorie di un vecchio cronista, “alloggiato in uno scantinato di via XX Settembre metteva alla berlina i poteri che condannavano Palermo al sottosviluppo e allo strapotere della mafia”. Una comicità, quella di questa vena, tutta di poesia e tutta di strada, che non ha mai ceduto alla facilità dello sfregio.

E non è un caso che Ficarra&Picone ­– disincantati, palermitani – abbiano assicurato al loro pubblico, quello privilegiato del ridotto, una comicità che è come una benedizione. E chi ha le corna, se le tenga.


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