PALERMO – Quattro anni e 8 mesi a Giuseppe Calcagno, sette anni a Marco Manzo. Sconto di pena di due anni ciascuno in appello per gli imputati.
Sono stati uomini del capomafia di Mazara del Vallo Vito Gondola e pedine dello scacchiere di Cosa Nostra che rispondeva agli ordini di Matteo Messia Denaro. Tasselli della rete di trasmissione delle comunicazioni del latitante. Il processo tornava in appello dopo un annullamento della Cassazione.
La Corte, presieduta da Adriana Piras, ha tenuto conto di un importante principio sulla cosiddetta “permanenza della condotta ascritta agli imputati”.
I supremi giudici avevano accolto il ricorso degli avvocati Raffaele Bonsignore, Luigi Pipitone e Paolo Paladino.
Nel 2015 è stato inasprito il regime sanzionatorio previsto per i reati di mafia. La Cassazione ha però stabilito il principio che “in presenza di una contestazione del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in forma ‘chiusa’, che abbracci un lungo arco temporale nel corso del quale sia intervenuta una modifica ‘in peius’ del trattamento sanzionatorio” spetta all’accusa “dimostrare che la partecipazione alla formazione criminosa si è protratta per tutto il periodo indicato nell’imputazione”.
Nel passaggio chiave della motivazione dell’annullamento della sentenza di appello i supremi giudici scrivevano: “… è onere dell’accusa dimostrare che la partecipazione alla formazione criminosa si è protratta per tutto il periodo indicato nell’imputazione. In altre parole, nel reato associativo di stampo mafioso, l’offesa al bene-interesse tutelato permane finché permane dimostrazione dell’immanente offerta di contribuzione del singolo partecipe, giacché è l’esistenza stessa dell’ente, composto da soggetti che offrono il proprio contributo al perseguimento dei fini sociali, che pone in pericolo l’ordine pubblico”.
Nel caso di Manzo e Calcagno c’è “la prova che il contributo (immateriale) offerto al sodalizio cessa nell’anno 2014 per entrambi i ricorrenti”. È la data dell’arresto dei due imputati.