Geraci: 'Perché si muore nei pronto soccorso, il Covid non fa paura'

Geraci: ‘Perché si muore negli ospedali, il Covid non fa paura’

Intervista al primario del pronto soccorso dell'ospedale Civico.

Il dottore Massimo Geraci è il primario del pronto soccorso dell’ospedale Civico di Palermo. E’ un momento delicato per l’urgenza. Lo suggeriscono i casi di cronaca che abbiamo raccontato, a Villa Sofia e al Policlinico. Storie di dolore, di morti e di denunce che richiederanno l’accertamento dei fatti. Lo conferma l’appello del primario di Villa Sofia, il dottore Aurelio Puleo: “Se potete, andate altrove”. Nel frattempo, la pandemia sembra mostrare un volto meno aggressivo, anche se la tragica conta delle vittime continua.

Dottore Geraci, in un pronto soccorso si può morire, aspettando di essere curati?
“Può succedere e succede, al di là dei comportamenti che sono sempre da valutare, per una coesistenza di fattori che rendono eventi di questo tipo possibili, anche probabili”.

Ovvero?
“Soprattutto la sperequazione tra domanda e offerta. Tanti pazienti e pochi medici. Se arrivano tre codici rossi insieme, e accade, il rischio aumenta e, nei pronto soccorso, si può, appunto, morire”.

Perché c’è una simile sperequazione?
“Per una concorrenza di fattori, come dicevo, tra cui la fuga dei medici dai pronto soccorso e una mancata programmazione del passato che non ha valorizzato le aree d’emergenza perché non ha compreso le necessità che si sarebbero manifestate nel futuro”.

Ma come si evita il peggio?
“Con nuovi modelli organizzativi, resi possibili da adeguate risorse, da una diversa programmazione e da una edilizia sanitaria confacente alla metodologia del lavoro che si vuole adottare. Sono importanti le sale d’attesa per i parenti con il wifi e la tv, ma rischiano di essere superflue, se nei reparti le condizioni sono infernali”.

Nello specifico?
“Gli spazi di attesa devono diventare luoghi di pronta accoglienza, anche di più pazienti, con protocolli diagnostici preliminari, iniziati immediatamente, che servano a definire la criticità e le priorità, ben oltre un semplice algoritmo o un codice colore”.

A che punto è il Covid?
“Abbiamo tanti colleghi contagiati e stanno benissimo, non hanno sintomi. In realtà, per quello che osservo, la distinzione tra il positivo asintomatico e il negativo è quasi una circostanza formale. Gli stessi pazienti positivi, perfino tanti fragili che scopriamo, non subiscono neanche l’ombra di quella che era la terribile malattia da Covid di qualche mese fa, come se il virus fosse collaterale”.

In sintesi?
“Il Covid non ci fa più paura, come accadeva ieri”.

Cosa ne consegue?
“Che, d’ora in poi, bisognerà operare un cambio di paradigma, distinguendo tra persone con un rischio alto, perché fragili o non vaccinate, e persone con un rischio più basso”.

Un altro esempio?
“Due vaccinati con la frattura alla gamba, se sono sani, uno positivo e l’altro negativo, possono convivere nello stesso reparto di Ortopedia. Dobbiamo andare verso questo schema”.

Altrimenti?
“Altrimenti sarà difficilissimo assistere tutti, con il Covid o senza”.


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