Paolo, morire a vent'anni è un oltraggio

Paolo, morire a vent’anni è un oltraggio

Riceviamo e pubblichiamo

In classe, qualche anno fa, c’era un alunno che amava estraniarsi dalle mie lezioni per iniziare a viaggiare, attraverso i suoi sensi, in tutte le capitali europee.

“Berlino è una città morbida prof?”, oppure “Parigi è più gialla o più rosa?” e ne uscivano fuori lezioni straordinarie e alternative che accarezzavano il tatto, la vista, la fantasia.

Una mattina mi chiese: “Ma di che profuma Palermo?”. Quella domanda è tornata, in questi giorni con dirompenza dritta al mio naso ed è con l’olfatto che voglio provare a sentirne le contraddizioni.

Le mie Palermo, perché esistono più città dentro la città, convivono separate e si incontrano solo per farsi del male. Certo, non sempre, per fortuna!

Palermo è profumo e puzzo. Palermo ha le balate sporche di un’immondizia antica e sempre nuova. È un cimitero all’aria aperta, dove ad ogni angolo di strada se sei attento puoi leggere un nome su una lapide di marmo, un morto ammazzato dalla ferocia mafiosa.

E se provi a spalancare i sensi puoi anche accorgerti che le strade sono sporche di un sangue che non si lava, innocente, che abbiamo provato a grattare, ma che rimane lì. Palermo è l’odore acre delle stragi, che nessun giardino di limoni può sovrastare. Palermo è il liberty negato, l’arte buttata a mare per far posto al cemento.

Pamormus è il suo stesso paradosso, perché ai palermitani il mare è stato sottratto come una beffa. E mentre la città si veste di nuovo, dove passeggiano i turisti si ha la sensazione che tutto sia bellezza e storia. Quasi che lo stupor mundi fosse ancora qui a ricordarci la sua magnificenza. Invece tra i suoi vicoli puoi sentire l’odore che fuoriesce dalle pentole che preparano il crack, in casa, tra i fornelli.

Veleno pronto a distruggere ancora i nostri giovani. E non riusciamo a trovare un antidoto alle mafie di ieri e di oggi. Perché questo “nuovo” che irrompe non possiamo comprenderlo attraverso le categorie del passato. Ragazzini armati fino ai denti pronti ad uccidere nel vortice del non senso, non che ammazzare qualcuno un senso ce l’abbia.

Ma qui non ci sono nemici, non c’è una guerra in corso. La mafia fa affari ad altissimi livelli, ha cambiato i suoi modelli di comunicazione, è diventata silente, perché il rumore delle stragi non serve più, non è utile.

Eppure il controllo dei territori è affidato o non è affidato a “questa cosa” che non sappiamo esattamente “cosa” sia e perché si stia muovendo in questo modo bislacco. A chi serve il non senso? A cadere sotto la bramosia di un potere atavico, primordiale, bestiale del più forte contro il più debole, sono i ragazzi innocenti di una Palermo che bella lo è ancora, nonostante tutto.

Paolo Taormina è una vittima di tutto questo, il profumo della sua vita spezzata lo sentiamo ancora e nessuna pioggia potrà mai lavare il suo sangue giovane per lenire l’olfatto della dimenticanza. Perché morire a vent’anni è un oltraggio, un furto. Uno strappo.

Mi capitava di incontrarlo per caso, come si incontra tanta gente, mentre si cammina in maniera distratta, col telefono alle orecchie per raggiungere la Feltrinelli, gli amici per un aperitivo, il partito per l’ennesima riunione.

Volti che diventano familiari, nonostante non ne conosci il nome e la storia, ma che ti fa piacere vedere sempre lì, parte integrante del tessuto urbano, di una strada, di un angolo di città. Questo era Paolo per me. Quel pezzetto di città prima di arrivare in via Cavour.

Intanto però in altri angoli della città ritorna, assieme alle pistole e al grilletto facile, la ‘nostalgia’ di una mafia che ha perso, ma che continua a vivere in una memoria al contrario, in un avamposto di illegalità da contrapporre ad una resistenza che dura da anni, che ogni giorno tentiamo di costruire nelle scuole e nei territori difficili. Ma purtroppo non basta e non basterà.

Che profumo fa Palermo quando si ribella, scende in piazza e si indigna? A me ricorda gli aromi del sottobosco, sa di muschio e funghi, di buono. Forse perché la nostra pelle è come corteccia di un albero, se la strappi via puoi leggere le stratificazioni del dolore, la rabbia per ciò che è stato e che può ritornare, in maniera inesorabile, anche sotto altre forme.

(Mari Albanese è insegnante, scrittrice e componente della segreteria regionale del Pd)

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