CATANIA – “La Sicilia non esiste. Io lo so perché ci sono nato”. Inizia così il secondo romanzo di Giuseppe Rizzo, giornalista e scrittore agrigentino. Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia (Feltrinelli, 2013, 14,00 euro, 288 pag.) è il titolo dinamitardo di questo libro che punta a far esplodere uno dopo l’altro, tutti i (peggiori) luoghi comuni sulla Sicilia. Protagonisti della storia, due ragazzi ed una ragazza, che nella fuga dall’Isola, ci hanno guadagnato, perché sono andati a conquistarsi un posto anche se precario, nel mondo globalizzato, infatti, la nuova generazione di emigranti ha fatto l’Erasmus e si sente a casa anche nella capitale più a Nord d’Europa. Lontani dalla Sicilia e distanti tra loro, i tre architettano una cospirazione burlesca e lo fanno a mezzo delle velocissime e-mail che si scambiano e così tramano di scaricare quintali di merda davanti al balcone del sindaco di Lortica (nome immaginario d’un paese vero e quel paese è tutta la Sicilia), ma per farlo, devono ritornare nel paesello natale. Manco a dirlo, lo scherzo riesce, ma li trascina dentro una battaglia contro i Pidocchi (così Rizzo definisce i mafiosi, perché a dargli altri nomi, si rischia sempre e comunque di farne icone affascinanti).
Tra imprenditori che sognano di costruire cimiteri in tutta l’Isola (ché è questo il business del futuro), carabinieri poco ligi alle leggi e madri apprensive, Osso, Gaga e Pupetta, rappresentano la miscela esplosiva d’un’antimafia antiretorica, che se ne infischia di dichiarazioni e proclami e si sporca le mani colla realtà “pidocchiosa” per sterminarla con azioni al limite del surreale. Scrive Rizzo a proposito dei giornalisti che scrivono di “pidocchi”: “Secondo me, ogni volta che si scrive un articolo si racconta la storia di uno di loro, secondo me bisognerebbe fare questa premessa: il pidocchio tal dei tali ha vissuto di merda, ha ingoiato la merda degli altri pidocchi e degli sbirri ogni giorno che il cielo l’ha mandato in terra, ha dormito in posti di merda per scappare alla merda del carcere dura, è finito in cella a spalare merda, ha finito per puzzare di merda e, ah, sì, una volta l’hanno visto guidare una macchina di lusso.” Insomma, ci siamo capiti: una vita di m…. da vero pidocchio. Alla trama, che non ci risparmia nemmeno il sequestro lampo d’un Pidocchio, s’aggiunge la scrittura originale di Giuseppe Rizzo che fa un uso spregiudicato della punteggiatura e dimostra così di conoscere a fondo la letteratura americana del novecento. Per farci raccontare qualcosa di più su questo bell’esordio nella grande editoria nazionale, incontriamo il giovanissimo Giuseppe Rizzo.
L’idea del libro le è venuta in Sicilia o fuori?
Ho iniziato a scrivere Piccola guerra lampo in Sicilia, poi ho continuato a Roma, dove vivo e lavoro da qualche anno. E da dove, per forza di cose, sempre di più mi capita di guardare alle cose siciliane. Con quel distacco che si forma quando ci sono di mezzo il mare e molti chilometri e che aiuta a non prendersi troppo sul serio, a evitare un tic molto isolano: il sicilianocentrismo. Quel misto di diffidenza e superiorità che fa pensare a tutti noi di saperla sempre lunga su tutto: rispetto all’Italia, al mondo, all’Intera Via Lattea. Siamo la provincia della provincia dell’impero, lo dico con molto affetto, una volta che lo si capisce si guarda alle cose con più lucidità – e ironia.
Quanto l’avvelenano i “discorsi vuoti e retorici di certi campioni dell’antimafia”?
Molto. Io penso che dalla denuncia sciasciana dei “professionisti dell’antimafia”, denuncia sacrosanta, molto sia cambiato, e perlopiù in peggio. La spilletta dell’antimafia si trova oggi sul petto di molti cretini – poco professionisti, molto opportunisti. La lotta alla mafia è una cosa seria, lo sanno a Gela a Palermo a Catania, lo sa chi vive sottoscorta ma non insegue titoli di giornale né carriere politiche. Lo sanno gli sbirri e gli insegnati e i commercianti. La retorica abbonda sulla bocca dei mediocri. I protagonisti di “Piccola guerra lampo” se lo ripetono spesso: niente eroismi da patacca, ognuno faccia la sua parte, se può e vuole, loro lo fanno con un po’ di incoscienza, e un po’ di rabbia, ognuno trova la sua strada.
Nel romanzo, si misura con la celebre “Teoria dell’Isola” di Manlio Sgalambro (riverito maestro pubblicato dalla Adelphi), un mito vivente insomma e non esita a definirla una “mezza minchiata” … cosa non le piace di quella descrizione?
Con i libri e i dischi di Sgalambro e Battiato un po’ ci sono cresciuto. Usava in provincia, acchiappare tutto quello che c’era che avesse una parvenza di cultura. E nelle cose di Sgalambro e Battiato ce n’era molta. E molto hanno scritto di bello e leggero e pop. Crescendo, anzi, mi sono accorto che più i due si scrostavano da misticismi e seriosità, e più resistevano al tempo. La Teoria dell’Isola per me rientra in un esercizio di stile, retoricamente affascinante, praticamente una supercazzola. Dire che siccome la Sicilia è un’isola allora i suoi abitanti sono mossi da “un oscuro impulso verso l’estinzione” è un po’ come fare il verso al principe di Salina che diceva che la fatalità dell’animo siciliano era causa del tempo atmosferico: e forse che gli islandesi non vivano su un’isola? forse che in California non batta il sole?
Ci libereremo mai dei “pidocchi”?
Sì.