PALERMO – Nove anni a Cosimo Vernengo. Cinque anni a Paola Durante. Quella subita da Giuseppe Gennuso e dal figlio Riccardo fu un’estorsione mafiosa. La ricostruzione della Procura regge al vaglio del Tribunale, presieduto da Bruno Fasciana
Cosimo avrebbe imposto il pizzo ai Gennuso, il padre è deputato regionale, che avevano rilevato una sala bingo alla Guadagna.
Cosimo Vernengo, 52 anni, ai domiciliari per gravi motivi di salute, già condannato per mafia, è uno dei condannati ingiustamente all’ergastolo per la strage di via D’Amelio.
I boss di Santa Maria di Gesù avrebbero incassato i soldi del pizzo dalla vecchia gestione della sala bingo, terminata nel luglio 2015, e pretendevano che anche i nuovi amministratori mettessero mano al portafogli. La tassa da pagare era piuttosto salata: 50 mila euro per lasciare la gestione del bar all’interno della struttura. Bar che per altro non era formalmente di loro proprietà.
Un acconto di 6 mila euro sul pizzo sarebbe stato consegnato a Durante, 41 anni, che per conto di Vernengo avrebbe gestito il bar della sala bingo durante la precedente amministrazione. Pizzo mascherato sotto forma di fatture emesse da due società per forniture e servizi mai effettuati.
I legali degli imputati, gli avvocati Rosalba Di Gregorio e Michele Calantropo, che faranno ricorso in appello hanno sempre sostenuto una tesi diversa: i soldi altro non erano che il pagamento per l’avviamento del bar e i macchinari lasciati in dotazione. Niente pizzo, dunque. Era una legittima richiesta dei Vernengo, al di là del cognome che portano. E non ci fu alcun clima di terrore come emergerebbe dal contenuto di alcune conversazioni intercettate e dal tenore confidenziale. I Gennuso non si sono costituiti parte civile al processo.
“La denuncia dell’onorevole Giannuso era genuina e sincera – spiega il suo legale, l’avocato Nino Caleca -. Lo certifica la decisione del tribunale di Palermo. Adesso non lo si lasci più solo”.
Gennuso dal canto suo è finito sotto inchiesta per estorsione ai danni di alcuni dipendenti della sala bingo. Tre ex dipendenti sostengono di essere stati costretti a firmare una transazione con la quale rinunciavano a due terzi dei soldi della liquidazione. Se non avessero firmato l’accordo, ed ecco la presunta minaccia, i lavoratori avrebbero subito la riduzione dell’orario di lavoro da nove a tre ore al giorno “in modo che non avrebbero più potuto sostenere le loro famiglie”.