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Quando il medico è Dio

Veronesi sa benissimo che il cancro agisce sull’uomo come un sasso gettato in uno stagno: ad un primo piccolo cerchio che concerne l’ambito strettamente fisico sotto forma di sintomi o menomazioni, ne seguono altri.

Pensateci bene: l’aria espirata è l’unico “prodotto di scarto” del corpo che l’uomo usa per altre nobilissime funzioni. A differenza di feci, urine, sebo e sudore, la cui produzione serve solo a mantenere l’omeostasi, sfruttiamo l’esalato per esprimerci con la parola, il canto, il suono di uno strumento. Sotto la guida del cervello, le corde vocali vibrano, i seni paranasali risuonano, i polmoni si sgonfiano dando origine alle parole e ai suoni che esprimono la nostra origine, la nostra cultura, il nostro pensiero, la nostra anima. Il concetto è insito nell’etimo stesso del termine “anima” che deriva dal greco “anemos”, cioè “soffio” o “vento”. Ebbene, se come diceva Carlo Levi “le parole sono pietre”, quando a produrle sono persone illustrissime come il Professor Umberto Veronesi, esse diventano macigni.

La figura di Veronesi non ha bisogno di presentazioni. Oncologo pioniere della chirurgia conservativa dei tumori mammari, fu tra i fondatori dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), Direttore dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia. Il suo curriculum e la quantità di persone che a lui devono il lavoro, la carriera e la vita, ne fanno una personalità di livello così alto che ogni parola esca dalle sue labbra è fatalmente gravata dal peso di un’indiscussa autorevolezza professionale e morale. Nel suo ultimo libro “Il mestiere di uomo”, Veronesi ripercorre le tappe della sua lunga meditazione sulla vita e sul dolore giungendo alla conclusione che ”Allo stesso modo di Auschwitz, il cancro è la prova della non esistenza di Dio”.

Ed ancora, secondo Veronesi, “nessun Dio può riscattare l’uomo dalla sua sofferenza, nessuna verità rivelata può lenire il dolore di due genitori che perdono un figlio malato di tumore”. Non mi sogno di confutare le convinzioni di Veronesi perché la Fede è come il coraggio di Don Abbondio che “Se uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Tuttavia, trovo che questo agnosticismo sbandierato ai quattro venti in occasione del vernissage della sua ultima iniziativa editoriale apra profonde e laceranti ferite nell’anima di chi, affetto da malattie come il cancro o coinvolto drammaticamente per amore, trova nella Fede una luce di Speranza e la guida della Carità.

Non mi ritrovo affatto nel concetto di un Dio che con il suo soffio spegne la sigaretta a un fumatore o spazza via l’amianto assassino dalle strade di Casale Monferrato. E neppure di un Dio che si sostituisce a giudici incapaci di fare Giustizia. Dio non è una specie di Supereroe dei fumetti che sorregge un pullman carico di scolari prima che precipiti nella scarpata. Del suo nome fa storicamente scempio la belva umana, dalle Crociate alle Torri Gemelle. Il motto “Gott mit uns” (Dio è con noi) ornava insieme alla svastica le cinture del soldati di Hitler. A Dio si appellò Giorgio VI nell’epilogo del famoso discorso radiofonico del 3 Settembre 1939. Con la frase “God bless America” si concludono i discorsi solenni del Presidente dell’unico Paese sulla Terra capace di scagliare un ordigno nucleare contro una popolazione civile. Ed è proprio a questo abuso del nome di Dio, più che alla semplice bestemmia, che forse fa riferimento il Secondo Comandamento.

Tornando ad argomenti che mi sono più familiari, Veronesi sa benissimo che il cancro agisce sull’uomo come un sasso gettato in uno stagno: ad un primo piccolo cerchio che concerne l’ambito strettamente fisico sotto forma di sintomi o menomazioni, ne seguono altri progressivamente più ampi che riguardano tutti gli ambiti dell’esistenza, per quanto breve possa essere: quello sociale e familiare, quello economico e quello, per l’appunto, spirituale. Ed è proprio per questo che i questionari di misura di quella entità astratta che definiamo “qualità di vita” esplorano tutte queste varie componenti. Ma al di là degli aspetti meramente tecnici, a me basta osservare tutti i giorni le immagini sacre appuntate sui cuscini della sofferenza e i rosari stretti tra le dita cianotiche, ascoltare una preghiera o la richiesta del conforto di un prete o riguardare la foto di Papa Francesco sorridente che mi donò Gregorio pochi giorni prima di morire per capire che per un paziente la speranza di un Dio che sostiene in attesa dell’Abbraccio è fonte di sollievo da un dolore ben più complesso della semplice sofferenza fisica: il “dolore globale”. Basterà interrogare il Medline, la banca-dati della letteratura medica mondiale e osservare in quanti casi ricorre l’associazione tra la parola “cancer” e le parole “spiritual support”, o “religion” o “faith” per scoprire quanta ricerca scientifica ci sia dietro quella che un grande Scienziato bolla, sic et simpliciter, come evidenza “a sfavore”.

A questo punto, che Dio esista per davvero o no è relativamente poco importante e di certo non ne troveremo le prove sulla letteratura scientifica. Ma ciò che essa dimostra è che l’ambito spirituale è un aspetto cruciale dell’assistenza globale al paziente oncologico perché Dio, in qualsiasi modo si definisca, è ben presente nella vita residua dei malati e in quelle dei loro familiari. E se Veronesi ha il pieno diritto di pensare che Dio non può esistere se esiste il cancro, dall’alto del suo magistero non può ignorare ciò che pensano e sentono milioni di malati che trovano nella preghiera una consolazione e un conforto che noi piccoli e grandi medici, con le nostre pillole e le nostre flebo, spesso non siamo in grado di offrire. In fondo siamo solo uomini.


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