Un’esperta di bon ton (oggidì per esser tali basta essere persone un tempo ritenute semplicemente educate), sciorinava in tv, qualche tempo fa, esempi di ciò che non si deve regalare per Natale.
Nel trionfo di trash e haters, proliferano in rete siti di consigli – da rifuggire – su cosa donare come “peggio del peggio del peggio”, ovvero oggetti di bruttezza rara per prendere la “giusta rivincita” sulle persone moleste, parenti in particolare; tuttavia, non condivido l’idea di imporre, al contrario, cosa non si debba regalare. Il regalo deve piacere anzitutto a chi lo fa. Se ne siete completamente soddisfatti e, soprattutto, se vi piacerebbe per voi stessi, è il regalo giusto. Non mi soffermo su quello che ormai è mero scambio commerciale, il do ut des dei famigli, l’incubo delle passeggiate a partire dal primo dicembre; il vero dono è solo quello che hai veramente desiderio di fare.
Qualche anno fa, la redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca compì per i suoi lettori un dotto viaggio nella splendida e ricca lingua italiana per raccontare in quanti modi si potesse definire, con diverse sfumature di significato, il tradizionale scambio di doni natalizio.
Regalo, dono, presente, omaggio, strenna, per definire ciò che ci aspettiamo di ricevere e di dare il giorno di Natale o la sera della Vigilia, secondo la tradizione familiare, sono tutte parole che vantano una lunga tradizione. In particolare, dono deriva dal latino donum e risale alla fine del Duecento; d’altra parte, l’usanza dei doni natalizi fa riferimento al primo Natale al mondo, quello del quale abbiamo smarrito il senso, e la instaurarono nientemeno che i tre Re Magi.
Il dono non ha a che fare con la quantità, o con il costo, ma con la qualità, come simbolo, sebbene materiale, di spiritualità; a differenza del regalo, è un tributo non tanto ai destinatari, quanto ai sentimenti che proviamo per loro. Anche se le due parole sono sinonimi, ricordiamo che alla concretezza del “regalo” si contrappone l’astrazione del “dono”, che può anche descrivere qualità intellettuali, morali, o assumere persino una valenza religiosa.
Regalo, che deriva dalla lingua spagnola, a sua volta discendente dal latino regalis, fa riferimento ai doni che i sudditi tributavano al Re; pur essendo un lemma antichissimo, è il più usato nell’era contemporanea. Ancor più letteraria è la definizione “presente”, che, secondo la Crusca, appare anch’essa nella lingua italiana, col significato di dono, nel XIII secolo e deriva dal francese presénter,nell’accezione di “portare qualcosa” a qualcuno.
Infine, usiamo “pensiero” o “pensierino”, per indicare un simbolo natalizio piccolo e di poco valore, ma comunque “pensato” ad hoc, mentre pacchi e pacchetti evocano, più che il contenuto, lucidi involucri e confezioni colorate. E ancora, l’omaggio è un regalo formale, tra persone non legate da vincoli familiari o di amicizia. In ultimo, il regalo natalizio per definizione è la strenna, che deriva dal latino strena, che significava sia augurio che dono augurale. Giusto per un piccolo aggiornamento statistico, se digitiamo su Google “regalo di Natale” troviamo 79.600.000 voci, e solo 28.200.000 per dono di Natale, mentre per “strenna natalizia” i risultati si riducono a 42.900.
Fossero anche solo pensierini, l’augurio è che se ne possano dare e ricevere tanti quanti se ne desiderino. Non è facile rendere il momento dello scambio degno di essere ricordato e, sebbene la munificenza nella spesa agevoli coloro ai quali piace vincere facile, talvolta è l’idea ad essere vincente, a rendere il momento importante, il dono riconoscibile e prezioso.
Piuttosto, evitiamo la maliziosa arte del riciclo; se anche i resilienti destinatari mostrino di non accorgersene, equivale a barare al gioco. Il rituale cambia radicalmente, e anche quando non si commetta una gaffe, se ne tradisce comunque lo scopo (per inciso, sarebbe quello di dare gioia, non di assolvere un compito). Anche se per pochi secondi, chi scarta un regalo entra in una dimensione fiabesca, incede in un pensiero magico. Piuttosto che deludere, o offendere, rinsaldiamo i legami di affetto, amicizia, stima.
Siamo già al crepuscolo degli dei e delle speranze. Non lasciamo che lo spirito del Natale si limiti a risiedere negli improbabili film americani di quarta categoria che da metà novembre imperversano in televisione, le protagoniste dei quali passeggiano per le città del Colorado, temperatura -20, caracollando sui tacchi alti senza rompersi il collo: anche loro, dopotutto, manifestano buone intenzioni, oltre che essere le regine incontrastate degli addobbi e dei biscotti allo zenzero.
L’ideale sarebbe recuperare l’immaginazione dei bambini. In quel piccolo capolavoro che è L’elogio del pomodoro, Pietro Citati rievoca la splendida magia della notte di Natale per un bimbo del secolo scorso, che aspettava l’arrivo di Gesù bambino, e non di eroi costruiti dai pubblicitari. Dopo la trepida attesa notturna, al mattino il dono appariva ancor più bello che nelle previsioni. “Ero beato. Sapevo che il regalo era stato scelto per me – soltanto per me – da una figura dell’aria. Intorno a me non c’era nessuno: mio padre mia madre dormivano; e io sfasciavo il pacco, vedevo il regalo, lo prendevo in mano, lo ammiravo e rimanevo colpito al cuore da una felicità che sarebbe durata almeno una settimana”.
Felicità è una parola grossa. Ma l’immaginazione, quella sì, può condurci a riscoprire il tema segreto, profondo, del Natale, e, dopo aver abitato il buio, al nitore dell’alba, per qualche istante di pura gioia.