Cosa mi resta di questi quattro anni iniziati quando venisti a cercarmi in ospedale perché ti avevano detto che io, amico dei tempi della scuola, avevo come nemico principale la malattia che t’ha ucciso qualche giorno fa. Mi restano il tuo coraggio, la tua dignità e quella lacrima che non ti vidi versare mai. Ricordo le tue mani fredde. Noi medici lo chiamiamo “fenomeno di Raynaud” e qualche volta annuncia il cancro ai polmoni con mesi d’anticipo. Mi portasti l’esito della biopsia e la prima TAC che suonavano già come una sentenza inappellabile. Incapace di dirti subito che non saresti guarito, ti proposi di iniziare la nostra guerra con la chemioterapia. Le “bombe a grappolo” che continuiamo a usare quando i farmaci biologici, le nuove “bombe intelligenti” non funzionerebbero.
Ricordo quando, ancora attaccato a quella flebo avvolta nella stagnola, armeggiavi con il deflussore perché non volevi far attendere le tue bimbe all’uscita di scuola. Mentre le tue dita, blu come il colore dei guanti di lana, diventavano sempre più insensibili. E dopo tre mesi di veleni guardammo insieme la TAC della speranza e della delusione: sembrava proprio che quel bastardo se ne fottesse delle nostre bombe. Ma tu non volevi arrenderti. Cercavi un chirurgo che se la sentisse di aprirti per strapparti dal petto quel bastardo che ormai s’era impadronito del tuo corpo, ma non di te. Te ne indicai alcuni tra i più esperti. Partisti e tornasti più smarrito di prima, come è ovvio che sia quando una sentenza così controversa è affidata a troppi giudici. Ti sedesti di fronte a me eleggendomi al rango di Corte Suprema e mi stringesti all’angolo con quella domanda: “Lascio a te la scelta. Se tu fossi al posto mio, ti faresti operare ?”. Ci pensai su per un attimo eterno. Sapevo che il chirurgo aveva mani ferme e coraggio, una dote sempre più rara nell’era in cui il timore degli avvocati allarga la schiera dei medici che allargano le braccia sconsolati ma tranquilli. E sapevo anche che le speranze di guarire, scarse in generale, sarebbero state nulle se non ti fossi operato. Pensai a quelle bimbe in attesa. Ti fissai mentre i tuoi occhi mi chiedevano di non sopprimere la speranza. E ti risposi esattamente come volevi che facessi: “Io mi farei operare”.
Mi chiamasti da Milano dopo qualche settimana. Stentai a riconoscere la tua voce al telefono. Mezzo polmone era andato, ti attendeva la radioterapia. Fu quello il momento più duro: la polmonite, l’esofagite, la tua voce arrochita dal passaggio della lama. E poi la ripresa e la ricaduta. Una serie infinita di farmaci, tutto ciò che ti potevo dare. Fino alla fine, quando pareva che finalmente il tuo coraggio fosse stato premiato dall’ultima bomba intelligente del nostro arsenale di guerrieri della speranza. Alle volte la lotta contro il male è anche lotta contro il tempo: quello che manca al nuovo farmaco. Perché per fortuna il progresso è tumultuoso; purtroppo il cancro lo è spesso ancor di più.
Un giorno mi sussurrasti al telefono che non avevi neppure la forza di mangiare. Proprio tu, che facevi il cuoco e che amavi il buon cibo. Tu che scherzavi con me sul progetto della nostra nuova vita, quando io avrei smesso di fare il medico e tu il malato: un ristorante dove coniugare gusto e salute, un posticino dove mangiar bene senza troppi rimorsi. “Il ghiottone pentito” l’avremmo chiamato, se quel bastardo non avesse vinto. Ma in fondo sapevamo entrambi che erano solo fantasie, gettate lì per esorcizzare l’angoscia tra un prelievo e un conato di vomito. Io preferisco ricordarti così: mentre mi spieghi come sorprendere mia moglie con il tortino di spatola. O mentre mi sveli i segreti della tua mitica gelatina al limone. Fino al tuo ultimo regalo: la bottiglia di Schioppettino del ’99 che mi portasti a Natale. “Una bottiglia da intenditore” – mi dicesti – “da bere nelle occasioni speciali”. Oggi, di ritorno dal tuo funerale, l’ho ripresa in mano. Si dice che il vino aiuti a dimenticare; ma oggi non vale per me, che pure convivo da più di trenta anni con le parabole rovesciate del dolore totale. Qualcuna più stretta, qualche altra più larga, ma in fondo tutte uguali. Proprio come dovrebbero esserlo tutti i pazienti per il proprio medico, mentre invece non lo sono affatto. Perchè qualcuno è più uguale degli altri e tu lo eri per me. Grazie, mio chef, per la migliore ricetta che da te ho appreso in questi quattro anni: la ricetta di Uomo.