PALERMO – “Nove anni per sognare: la mia condanna a morte da parte della mafia, l’8 febbraio del 2009, nel giorno del mio compleanno. Era l’8 febbraio del 2009. Sono passati nove anni. Venni chiamato dal procuratore Marino, a Caltanissetta – gli sarò sempre grato per questo, anche se le nostre strade dopo si sono divise. Il pm mi disse che le forze dell’ordine avevano scoperto che era stata decretata una condanna morte da parte del capo mafia di Gela, Daniele Emmanuello”. Lo scrive l’ex presidente della Regione Rosario Crocetta sul suo profilo Facebook. “Condanna, come riferi’ due anni orsono, nel corso di una testimonianza a Firenze, un pentito di mafia, che e’ ancora valida, poiché il boss che l’aveva emessa era morto. Solo chi ha emesso la condanna la può revocare, una sorta di fatuah medievale che continua a resistere nei tempi moderni”.
“Fu proprio, però, quel giorno in cui venne chiaro a me la grandezza del popolo siciliano – racconta Crocetta da Castel di Tusa -. La procura mi consigliò di non fare alcuna iniziativa pubblica per qualche periodo. Quel giorno, avevo in programma di fare insieme al segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, un comizio in piazza università a Catania. Decisi di fare quel comizio lo stesso, anche se rischiavo la vita. Alla fine mi fecero indossare un giubbotto antiproiettile ed io parlai in una piazza Università straordinariamente piena, a tanti catanesi e tanti siciliani che erano venuti da tutta la regione. Ricordo ancora la sofferenza nel dover parlare indossando quel giubbotto di metallo che mi stringeva i polmoni e mi soffocava la gola!! Ma alla fine ero felice. Felice per non avere ceduto alle minacce e di avere affermato il mio diritto alla dignità. Felice di non avere piegato la testa. Felice per quella tanta gente perbene che, sfidando la mafia ed il pericolo era venuta a manifestarmi solidarietà”.
Crocetta ricorda ancora: “Alla fine del comizio, un gruppo di giovani catanesi mi invitarono presso la sede della loro associazione (mi piacerebbe reincontrarli) tagliarono una torta con su scritto ‘siamo tutti Rosario’. Da quel giorno mi sono sentito solo Siciliano e Catanese, poiché avevo avuto la prova evidente della grandezza di noi siciliani. Avevo avuto la prova di quanta gente onesta e perbene c’è in Sicilia. Avevo avuto la certezza che in Sicilia ci sono le forze per sconfiggere il malaffare, la consapevolezza che si può cambiare. Oggi, a nove anni di distanza, ferito, ma non ucciso, ho consapevolezza che siamo in una fase diversa, una fase in cui bisogna resistere, resistere, resistere. Resistere contro il revisionismo Antimafia che porta a riciclare nelle liste soggetti che andrebbero tenuti lontani dalla vita pubblica”.
“Molti di noi sono abbattuti, pensano che tutto sia perduto, che tutto sia diventato regime e che non ci sia più speranza. ‘Scarpe rotte eppur bisogna andar’! Io voglio ripartire da quelle candeline che quei ragazzi di Catania accesero per il mio compleanno di nove anni fa. Come nove anni fa, pronto a battermi per la Sicilia, per la giustizia, per la verità, contro ogni tentativo di ritorno indietro, di ritornare a quel passato dominato da prepotenti che hanno distrutto e continuano a distruggere la Sicilia. Sento che abbiamo tempo, in fondo ho nove anni, nove anni rubati alla morte, nove anni per ricominciare, come sempre! Guai alla rassegnazione, guai a cedere, non ci si piega ai prepotenti e non si toglie la po’ coppola di fronte ai padrini: “Schifiamo le mani a vossia”! In fondo, quando si ha nove anni, si può pensare di avere tanto tempo per battersi per e continuare a sognare”.