Mi hanno raccontato. Mi hanno raccontato di una foto tutta sorriso di Benito Paolone. E’ attaccata su un armadietto. Negli spogliatoi dello stadio. Quello del rugby Catania, precisamente. Benito non c’è più e mi hanno raccontato che sempre, anche negli allenamenti, non solo durante gli incontri, quei ragazzi grandi come alberi gli fanno ciao e c’è da capirli: per Benito il rugby era tutto. Grazie al rugby ne strappò tanti di ragazzi alla malavita, alla dannazione e all’odio perfino perché Benito, pur figlio di un padre buttato nelle foibe, praticò per tutta la sua vita l’unica vera e degna gara: quella di partire da due punti lontanissimi per ritrovarsi nella mischia e fare meta. Ed è per questo che lui s’innamorò del rugby fino a farne la propria dottrina.
A Treviso, quando un ragazzo di questi, uno di questi alti e forti come alberi, se ne partì per i cieli, i compagni, i dirigenti delle società e gli atleti delle altre squadre issarono gli onori a centrocampo e sembrò che fosse Ettore restituito alla dignità della pira, giusto quella bara sul prato. E così Benito. Sul letto di morte, prima di spirare, ebbe modo di ruggire a Silvio Berlusconi che si precipitò a Catania per piangerlo, un’unica raccomandazione: “Abbi cura dell’Amatori Rugby”. Io non so se devo chiederlo a Giovanni Malagò, il presidente del Coni, ma certamente si starà già adoperando Enzo Bianco, il sindaco di Catania che ebbe in Benito un avversario degno del campo dove si corre da punti lontanissimi per arrivare a meta: quello stadio, dove volteggia la palla ovale, deve avere una degna dedica. Deve essere intitolato a Benito Paolone. Lui appartiene al rugby, il rugby appartiene a lui. E i ragazzi, appunto, quelli che fanno ciao, sono alberi. Sono solo memoria.
