PALERMO – Settembre 2015-ottobre 2016: dall’esplosione dello scandalo al sequestro è passato un anno. Un anno segnato dai mugugni e i mal di pancia di coloro che hanno visto nel caso Saguto la conferma che, come spiegava Walter Virga, amministratore giudiziario e figlio del giudice Tommaso, “i magistrati si difendono fra loro”.
Cane non mangia cane, dicevano i latini. Nel settembre dell’anno scorso i finanzieri della Polizia tributaria si presentarono con un mandato di perquisizione a casa del presidente della sezione Misure di prevenzione e degli altri indagati. Ma “violarono” pure la stanza del magistrato al piano terra del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Magistrati, in questo caso i pm di Caltanissetta, che fanno irruzione in altri uffici giudiziari. Accade molto raramente. Era la conferma che neppure il Palazzo poteva essere considerato un sacrario inviolabile.
Eppure è proprio in quei giorni che iniziarono i primi mal di pancia, manifestati nei commenti che da lì in poi sarebbero stati postati anche sul nostro giornale. Una marea di commenti sintetizzabile in un interrogativo duro: perché Silvana Saguto non è stata raggiunta da un provvedimento cautelare che, al netto del linguaggio tecnico e volendo usare alla lettera le parole dei commentatori, significava chiedersi perché il giudice non fosse stata arrestata. Siamo davvero al cane non mangia cane di cui sopra, alla sicurezza espressa dalle frasi intercettate di Walter Virga?
L’esplosione dello scandalo è stata seguita da mesi di silenzio. Il sospetto delle piazze virtuali ha invaso anche quelle reali. Nei discorsi al bar come nei corridoi del Palazzo di giustizia. Stanno insabbiando tutto, dicevano addirittura i maligni.
Infine, nei giorni scorsi la cronaca viene aggiornata con un sequestro preventivo da 900 mila euro che ha colpito Saguto e gli altri indagati. Per la verità i soldi arrivano per lo più dalle disponibilità dell’avvocato e amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara, figura centrale in quello che gli investigatori definiscono “sistema”. Un sequestro, ma non un provvedimento cautelare, sottolineano oggi i duri.
Non si può, però, fare finta di non vedere le 1.200 pagine su cui si basa il decreto di sequestro disposto dai pubblici ministeri di Caltanissetta. I finanzieri della Polizia tributaria di Palermo hanno setacciato montagne di carte, sentito 150 testimoni, studiato gli atti, contabilità inclusa, di 50 amministrazioni giudiziarie. Sono stati rigorosi. E per essere rigorosi ci vuole tempo. Tempo che finisce probabilmente, non si ha certezza che lo scandalo su cui si indaga oggi rientri nella casistica, per fare venire meno le esigenze cautelari necessarie per giustificare una richiesta di misura.
Si potrebbe racchiudere l’intero ragionamento in una sola parola, garantismo. Che non deve suonare come uno sberleffo, qualcosa che provoca il mal di pancia, semmai come il pilastro di una giustizia che vuole essere davvero giusta. È lecito, però, attendersi, ribaltando la prospettiva della questione, che il garantismo valga per tutti. Sempre e comunque. Al di là del fatto che l’indagato indossi o meno una toga.