"Sono i signori del narcotraffico" | Ma il giudice dice no a 21 arresti - Live Sicilia

“Sono i signori del narcotraffico” | Ma il giudice dice no a 21 arresti

Il palazzo di giustizia di Palermo

Secondo i pm di Palermo, importavano cocaina dalla Colombia. Per il gip, però, non c'è "l'attualità" delle esigenze cautelari.

PALERMO – Liberi, nonostante vengano accusati di avere importato cocaina in Sicilia dalla Colombia. Nonostante, secondo l’accusa, ci sia il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. I pubblici ministeri di Palermo avevano chiesto di arrestare ventuno persone, ma il giudice per le indagini preliminari Giangaspare Camerini ha deciso di applicare, e solo ad alcuni di loro, l’obbligo di dimora e di presentazione in caserma. Niente carcere, dunque, perché non c’è l’”attualità del reato”. 

Mentre fa ancora discutere il mancato arresto dell’indiano accusato di avere tentato di rapire una bimba a Scoglitti, rischia di aprirsi una nuova polemica a Palermo. L’ordinanza del giudice è dello scorso 16 luglio, ma la storia viene a galla soltanto ora. Alla fine le “morbide” misure cautelari sono state emesse nei confronti del trapanese Salvatore Crimi e del palermitano, ma residente a Salemi, Giuseppe Palermo (obbligo di dimora); di Matteo Anzelmo, Giuseppe Baldo Benenati, Gianni Ingraldi, Giovanni Pipitone,(tutti originari della provincia di Trapani) e dei palermitani Emanuele Saglimbene, Michele e Gaetanno Grigoli (tre volte alla settimana si dovranno presentare in caserma).

La Procura non ci sta. Ha già fatto ricorso al Tribunale del Riesame. Ritiene che solo il carcere può salvaguardare le esigenze cautelari. In sostanza, non si può escludere che gli indagati inquinino le prove, reiterino il reato o decidano di fuggire. Ne sono convinti alla luce delle intercettazioni, telefoniche e ambientali. Anche in virtù dei tanti viaggi registrati all’estero e della rete di contatti con grossi nomi del narcotraffico internazionale.

L’elenco degli indagati si completa con Vincenzo Aceste (Alcamo), Luis Guillermo Alvarado (Venezuela), Vito Cappello (Mazara del Vallo), Antonino Corpora(Camporeale) Michele Decina (Salemi), Salvatore Giordano (Ravanusa), Mario Fortunato Miceli (Toronto, Canada), Salvatore Miceli (Salemi), Roberto Pannunzi (Roma), Juan Carlos Suaza Lizcano (Natagaima, Colombia), Kastriot e Dashnor Zdrava (Kucove, Albania).

Pannunzi e Salvatore Miceli sono due nomi storici del narcotraffico internazionale. Il primo fu arrestato a Bogotà, nel 2013, dopo tre anni di latitanza. Il secondo, considerato un pezzo da Novanta della mafia di Salemi, latitante in Venezuela c’è rimasto dal 2003 al 2009. Si racconta che dopo un trasporto di cocaina ordinato da Giovanni Brusca, ma mai portato a compimento, sul capo di Miceli pendesse una condanna a morte stoppata dall’intervento di Matteo Messina Denaro. Nel caso di Pannunzi e Miceli, però, il gip non ha accolto la richiesta di arresto perché non ha ravvisato i gravi indizi di colpevolezza per il rato di associazione finalizzata al traffico di droga. I due sono comunque già detenuti.

Ed è proprio intercettando in carcere Miceli che sono iniziate le indagini dei carabinieri del Ros di Palermo e del Nucleo investigativo di Trapani. Indagini che sono andate avanti dal 2011 al 2014. Da qui “la notevole distanza temporale intercorrente tra i fatti in esame ed il momento della decisione cautelare” sottolineata dal giudice. Ascoltando Miceli i carabinieri si sono imbattuti innanzitutto in Palermo, nel suo autista Benenati e in Crimi, soprannominato ‘il ragioniere’. Crimi e Palermo erano già stati coinvolti nell’operazione Igres del 2003 – di cui quella di oggi è un ulteriore step – che aveva fatto scattare il mandato di arresto a cui si era sottratto Miceli. Con l’aiuto del figlio Mario Fortunato e di Decina, una volta finito in cella, Miceli avrebbe tentato di organizzare nuovi traffici illeciti, d’intesa con i calabresi vicini alla cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo, in provincia di Reggio Calabria.

L’11 marzo del 2014 un carico di 320 chilogrammi di cocaina è stato sequestrato a Santa Marta in Colombia. La droga era nascosta dentro alcuni tubi di metallo, pronti per essere caricati su una nave carboniera diretta nei Paesi Passi. È qui che che gli uomini di Crimi e Palermo avrebbero dovuto ritirare la loro parte, venti chili di polvere bianca destinata al mercato siciliano.

Le intercettazioni, secondo gli investigatori, sarebbero inequivocabili. Si parlava di “prendere coca” e di tanti soldi da investire: “… ce la prendiamo tutta, tutta ce la dobbiamo prendere, capisci, ci organizziamo, ce ne prendiamo un kilo e mezzo l’uno, mettiamo 6000 l’uno, vediamo se scendiamo a 4, minchia, di lusso, di lussissimo, compare”. Il sequestro di Santa Marta non avrebbe interrotto i traffici. Carichi di droga sarebbero giunti in Sicilia per essere raffinati a Palermo e rivenduti anche in provincia di Trapani.

Ecco perché i pm avevano chiesto che ventuno indagati finissero in carcere. Il Gip ha deciso diversamente. Per alcuni non ritenendo che si potesse contestare il reato di associazione a delinquere. Per altri, invece, pur sussistendo il rato più grave, “ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari”. Fra il presunto reato e il suo accertamento è passato parecchio tempo. Troppo, secondo il gip che cita alcune sentenze della Cassazione, per poterli arrestare. Inoltre “quanto al requisito della attualità, peraltro, occorre un approfondimento di indagine”. Bisogna dimostrare, insomma, l’attualità punto per punto. Al momento basta, dunque, una misura cautelare meno afflittiva. Non ci sta la Procura diretta da Francesco Lo Voi: si sarebbero trovati di fronte ad organizzazioni “stabili”, composte da personaggi dal pericoloso profilo criminale, che restano in piedi al di là dei singoli traffici scoperti. Tutto farebbe pensare che, concluso o scoperto un affare illecito, altri potrebbero subito essere stati avviati. L’appello contro il no agli arresti è già stato presentato. Anche in caso di esito favorevole per la Procura, l’inevitabile ricorso in Cassazione degli indagati bloccherebbe le misure cautelari.


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