PALERMO – Quando i poliziotti, nell’aprile 2019, arrivarono nell’appartamento di via Antonino Pecoraro Lombardo c’era una coperta sul cadavere di Elvira Bruno. Un gesto, quello del marito, Moncef Naili, che l’aveva strangolata, non nuovo nei casi di femminicidio. Un gesto di accudimento post mortem. Materia di studio degli psichiatri. L’uomo è stato condannato a trent’anni di carcere. Il massimo della pena prevista con il rito abbreviato.
Il tunisino, cuoco di professione, 52 anni, aveva confessato il delitto. Parlò di un raptus, uno scatto di ira provocato dal gesto della moglie. Si era avvicinato per accarezzarla, forse cercava un approccio sessuale, e lei lo aveva graffiato.
Non andavano più d’accordo. Lei, di un anno più grande, le aveva chiesto il divorzio e lui, anche se non di buon grado, si era detto disponibile. Le pratiche legali erano state avviate. Gli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Annamaria Picozzi e dal sostituto Federica La Chioma, ricostruirono la rabbia che covava nell’uomo, il quale rimproverava alla moglie di essere cambiata. Un cambiamento che imputava alla scelta della donna di lavorare – faceva la badante – per rendersi autonoma e libera. “Vorrei essere morto io”, disse Moncef Naili nel corso dell’interrogatorio.