Vendette e regolamenti di conti |I retroscena dei cinque delitti - Live Sicilia

Vendette e regolamenti di conti |I retroscena dei cinque delitti

I scenari, i luoghi e la ricostruzione dei cinque fatti di sangue risolti dopo due decenni dalla Dda di Catania, guidata da Giovanni Salvi.  Uno spaccato della sanguinaria guerra tra cosche catanesi. Ai vertici del clan Laudani c'erano killer spietati.

LA FAIDA DEI LAUDANI NEGLI ANNI '80 E '90
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7 min di lettura

OMICIDIO DI ALFIO GAMBERO – Era il primo luglio del 1987, la piccola comunità di Pedara fu funestata dalla notizia di un omicidio. Alfio Gambero era stato ammazzato senza pietà al distributore Gulf di Via Etnea nella periferia della città pedemontana. Tre colpi di fucile da caccia e quatto di pistola calibro 9 lo avevo crivellato. I carabinieri andarono sul posto e interrogarono alcuni testimoni e il gestore del locale. Mentre quest’ultimo seppe dire solo di aver sentito alcuni spari dall’esterno e di aver notato un uomo che imbracciava un fucile, un cliente descrisse nei minimi particolari l’agguato a Alfio Gambero, ex pilota da corsa, che era solito trascorrere la sera al bar dell’area di servizio a giocare a carte e fare quattro chiacchiere. Erano stati in due – secondo il testimone oculare – a sparare, tutti e due con il volto travisato da una calzamaglia bianca. Con il cadavere sull’asfalto sono saliti su una 128 bianca che è partita a tutta velocità. Una 128 bianca è stata ritrovata il giorno dopo a Nicolosi completamente bruciata: dagli accertamenti era stata rubata il giorno prima ad Acireale. Le indagini si impantanano in un vicolo cieco, fino al 1997 quando Alfio Giuffrida, diventato collaboratore di giustizia, si è autoaccusato di essere uno dei killer di Alfio Gambero, detto “U Cuffari”. Con lui c’erano Alfio Laudani e Giuseppe Di Giacomo. Di quel delitto conserva ancora un ricordo – ha detto Giuffrida ai magistrati – i pallini del fucile di Laudani che lo colpirono di rimbalzo. La svolta alle indagini che hanno portato alla misura di custodia cautelare sono le dichiarazioni di Pippo Di Giacomo, reggente della famiglia Laudani, che ha deciso di diventare collaboratore. Nel 2009 il suo racconto del delitto del primo luglio 1984. La vicenda era collegata alla uccisione di Sebastiano Grasso, esponente di spicco del clan dei “Laudani” avvenuto, nella primavera del 1984. A seguito di tale uccisione, per dare un segnale forte della loro forza sul territorio Etneo, Gaetano Laudani e il fratello Alfio Laudani, deliberarono una serie di omicidi tra cui quello di Alfio Gambero. “Non è che noi eravamo certi e sicuri di chi fu l’autore – spiega ai pm Di Giacomo – ora giustamente chi non è contro i Laudani e ci sono dei cani sciolti questo è un pretesto buono perché diamo una risposta”. Un regolamento di conti, insomma, anche perché Alfio Gambero, da una parte aiutava il clan fornendo capannoni per nascondere camion rubati, però faceva estorsioni non autorizzate. Insomma era un “cane sciolto” che i vertici dei Mussi i ficurinia decisero di “togliere di mezzo”.

DUPLICE DELITTO DI DOMENICO PELUSO E CAMILLO CARUSO – Due cadaveri nel portabagagli di una Fiat Punto davanti alla casa di Mario Buda. Era il 20 luglio 1993, la polizia allertata da una chiamata al 113, arriva sulla Stradale San Giorgio: il pregiudicato Domenico “Mimmo” Peluso, affiliato ai Laudani e il latitante Camillo Caruso, Melo “codda fradicia”, del clan Sciuto Tigna era stati uccisi freddamente con colpi ravvicinati al capo. L’esame autoptico del medico legale fornisce agli investigatori elementi utili per comprendere che i corpi erano stati riposti in macchina già morti, ma nonostante il metodo era di chiaro stampo mafioso, la polizia nel 1996 archivia l’indagine. Sono le dichiarazioni dei collaboratori Aldo Giuffrida, Salvatore Di Stefano e Giuseppe Di Giacomo a dare una svolta. Il primo e il terzo erano presenti al delitto, il secondo invece rende dichiarazioni, come si dice in gergo derelato, cioè da notizie apprese da terzi. I racconti sono convergenti e permettono di ricostruire i fatti. Peluso e Caruso erano stati convocati da Di Giacomo in una casa di campagna per avere una serie di risposte in merito all’omicidio di Gaetano Laudani, sapendo che “codda fradicia” dopo la scissione era passato ai Tigna. Per il clan ad ammazzare il “capo” era stato “cammissedda” Giuseppe Ferone. Le risposte evasive di Caruso, però, fanno saltare i nervi a Di Giacomo che gli rompe una bottiglia di vetro in testa gridando sei “cornuto e sbirro”, a quel punto Peluso tira fuori una pistola, ma in pochi secondi si trova in testa la pallottola della sua stessa calibro 9: a sparare è proprio Di Giacomo. Presente all’incontro oltre ad Alfio Giuffrida, anche Camillo Fichera che dopo l’uccisione di Mimmo aveva puntato un’arma contro “Caruso” ma il colpo fa cilecca. A quel punto, nonostante la richiesta di graziarlo di “codda fradicia”, Di Giacomo lo ha “ammazzato”. Su suo stesso ordine i due furono caricati nella macchina che fu parcheggiata davanti alla casa di Mario Buda, vertice dei Tigna, come “sfregio”.

OMICIDIO GIOVANNI PIACENTE – Un agguato pianificato e progettato nei minimi dettagli. Giovanni Piacente “u ceusu” muore in una pozza di sangue sull’asfalto della SS 114 a pochi metri dal casello di Giarre. L’agguato risale al 1993: Piacenti era in villeggiatura a casa della suocera e ogni mattina partivano presto alla volta di Catania per aprire un’edicola. Prima di entrare in autostrada un colpo di fucile raggiunge il fuoristrada, Piacente blocca la corsa e tenta la fuga ma i sicari non sbagliano il bersaglio. La donna, Giuseppa Russo, ha raccontato ai carabinieri, non senza reticenze, che una volta fermata la macchina lei era scappata riparandosi in un’altra autovettura ed aveva sentito gli spari. A dare l’ordine di uccidere Piacente, detto Giovanni Rendo (visto il suo patrimonio finanziario) o Giovanni l’usuraio, per l’attività della suocera Pippa, fu Giuseppe Di Giacomo come lui stesso ha dichiarato ai magistrati. Doveva morire, faceva parte del progetto “di decimazione di tutti i Ceusi”. I killer erano tre: Camillo Fichera, Gino Di Bella e Alfio Giuffrida, quest’ultimo era alla guida della Lancia Thema. GIuffrida nel 1997 racconta ai magistrati di far parte del gruppo di fuoco che uccise “u ceusu” di Picanello, delitto che aveva ricevuto l’approvazione direttamente dei Santapaola.

OMICIDIO DI SALVATORE GRITTI – Usciamo fuori dai confini della provincia di Catania: Carlentini, 10 maggio 1991, in un garage di Contrada Madonna il sorvegliato speciale Salvatore Gritti è freddato da diversi proiettili. A scoprire il cadavere una parente, ai carabinieri raccontò che la vittima aveva gridato “aspettate, aspettate” prima di essere crivellato di colpi. Due collaboratori di giustizia, Alfio Giuffrida e Dario Demetrio Basile forniscono elementi utili per collocare il delitto all’interno del Clan Laudani. Il primo fa un nome preciso: Giuseppe Di Giacomo. Nel 2009 arriva la conferma ai magistrati dalla sua stessa voce. Un omicidio che ha ben cristallizzato nella memoria, “Me lo ricordo perché era il giorno della festa di Sant’Alfio”, spiega. A dare l’ordine è Gaetano Laudani: Gritti ha pagato il rifiuto di partecipare ai regolamenti di conti pianificati per vendicare la morte del fratello Santo. Il sorvegliato speciale, affiliato ai Tigna, era uno “dei killer più e sanguinari e feroci di Catania”. E poi si vociferava che Gritti fosse diventato il confidente di un carabiniere, Il capitano Giuseppe Rapiti. Di Giacomo spara, a sangue freddo, con una calibro 38.

DUPLICE OMICIDIO DELL’AVVOCATO DI MAURO E DEL SEGRETARIO FRANCESCO BORZI’ – Era chiamato l’Avvocato “Puntina”, perché il nonno altri non era che Giuseppe Di Mauro, capo dell’omonima organizzazione mafiosa, conosciuta meglio come Clan Puntina. Salvatore Di Mauro e il suo segretario sono stati uccisi all’interno dello studio legale di Via Garibaldi, la sera del 24 giugno 1993: 7 colpi per il primo e 4 per Borzì, tutti a distanza ravvicinata. L’indagine della Squadra Mobile si dirige immediatamente nell’ambiente della criminalità organizzata e la pista è quella del regolamento di conti, nell’ambito di una lotta in corso tra le cosche etnee. La direttrice è quella giusta ma nessun elemento probante riesce a dare una svolta all’inchiesta. L’uccisione dell’avvocato è decisa durante un summit dei Laudani: Di Mauro, mente e stratega dei Puntina, deve “morire”. Le dichiarazioni di Alfio Giuffrida alla fine degli anni ’90 e, poi, nel 2000 quelle di Salvatore Troina rappresentano le fondamenta per rimettere insieme il mosaico che “svelerà” mandanti ed esecutori del delitto del penalista e del suo segretario. Giuseppe Di Giacomo partecipa all’agguato, il reggente dei Laudani aveva anche incontrato l’avvocato “Puntina” al centro clinico di Pisa, lì i due avevano litigato. Il suo racconto alla magistratura è dettagliato: i Laudani erano in guerra con una parte dei Puntina, quelli rimasti fedeli al patriarca Giuseppe Di Mauro e tra questi l’avvocato Salvatore. Intorno alle 9 di quella sera di giugno del 1993, Di Giacomo ed altri due killer suonano allo studio del penalista fingendosi dei clienti: Di Mauro non sa che sta aprendo la porta ai suoi assassini.

 

 


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