Vi racconto il purgatorio di Mineo - Live Sicilia

Vi racconto il purgatorio di Mineo

di RITA BORSELLINO Qualcuno lo ha chiamato il “Villaggio della solidarietà”. Qualcun altro lo ha definito “Centro di accoglienza e identificazione”. Di fatto, il residence di Mineo, nel Catanese, dove sono stati stipati circa 1.800 migranti, non è nulla di tutto questo. E’, semmai, una terra di nessuno, o meglio una sorta di purgatorio per anime in attesa.

di RITA BORSELLINO

Qualcuno lo ha chiamato il “Villaggio della solidarietà”. Qualcun altro lo ha definito “Centro di accoglienza e identificazione”. Di fatto, il residence di Mineo, nel Catanese, dove sono stati stipati circa 1.800 migranti, non è nulla di tutto questo. E’, semmai, una terra di nessuno, o meglio una sorta di purgatorio per anime in attesa.

Poco prima di arrivare a Mineo, avevo provato a immaginare ciò che mi sarei trovata di fronte: lunghe code di uomini, donne e bambini in fila per le procedure di identificazione, per ottenere la certificazione dei loro status di profughi e richiedenti asilo e magari per aderire a qualche programma di inclusione e integrazione sociale, se non addirittura lavorativa. Insomma, mi ero immaginata una struttura che, come prescrivono le leggi e il buon senso, dovrebbe servire a immettere centinaia di persone sfuggite a guerre e persecuzioni all’interno del nostro tessuto sociale.

Una volta varcata la soglia di quello che fino all’anno scorso era il residence dei militari statunitensi, ho capito subito di essermi fatta un’idea sbagliata. Davanti alle villette, ordinate e ben tenute (almeno all’esterno), sostano diversi gruppetti di persone, soprattutto giovani: silenzio quasi irreale,braccia conserte, volti ancora segnati dall’inferno cui sono sfuggiti.

“Stanno così per la maggior parte del giorno – mi spiega l’operatrice della Croce rossa che mi accompagna – D’altra parte, qui non c’è granché da fare. Se non attendere di sapere quale sarà il proprio destino”. Pensare che, essendo lì da quasi un mese, l’attesa è destinata a durare ancora poco è stato il mio secondo errore. Le procedure per il riconoscimento dei rifugiati e dei richiedenti asilo, infatti, sono sostanzialmente al palo. Manca ancora la commissione che dovrebbe espletare queste pratiche. Ma non solo: la struttura non ha ancora una vera e propria configurazione giuridica e su chi dovrebbe gestirla vige la totale confusione. Da quando è stato aperto, il centro è stato gestito prima dal commissario straordinario, poi dalla Prefettura di Catania. Adesso, tutto è nelle mani della Croce rossa, ma a fine giugno la gestione passerà alla Protezione civile.

Insomma, vuoi per l’ignavia amministrativa, vuoi per la farraginosità della nostra legislazione sull’immigrazione, il residence di Mineo non può essere neppure definito un centro di accoglienza e identificazione. E’ un non luogo dove vive una Babele di 36 etnie che solo la solidarietà reciproca e la buona volontà degli operatori della Croce rossa e delle poche organizzazioni non governative che hanno avuto finora accesso alla struttura hanno permesso di far convivere con una certa armonia.

Ci sono musulmani, cattolici, ebrei. C’è la donna che ha subito l’infibulazione e quella che vorrebbe praticare la circoncisione al suo bambino. E soprattutto ci sono i giovani, la stragrande maggioranza delle anime in attesa di Mineo. Molti hanno titoli di studio medio-alti, chi ingegnere, chi medico.“Lo sa qual è il paradosso? – mi dice il sindaco di Caltagirone, Franco Pignataro – che tanti di loro potrebbero trovare lavoro già nel nostro territorio. Solo che nessuno finora ci ha chiesto cosa potremmo fare, noi amministratori locali, per accogliere e aiutare queste persone”. Già, perché al vuoto giuridico si aggiunge il fatto che tra il centro di Mineo e il territorio manca la figura di riferimento con cui interloquire. Mancano i progetti per l’integrazione culturale, quelli per l’inclusione sociale e lavorativa o anche solo i programmi per la prevenzione sanitaria. Manca, in sostanza, una progettazione seria rispetto a una situazione che resta estremamente delicata. Non basta mettere la parola ‘solidarietà’ accanto per dimostrare che le cose funzionano, la solidarietà va espressa in termini giuridici altrimenti resta solo un proclama. Non si può solo contare e affidarsi alla buona volontà di chi sta operando nel centro. Persino gli stessi migranti vogliono vivere una vita attiva, rendersi utili, e i qualche caso, pur avendo in mano il permesso temporaneo di soggiorno scelgono di restare lì, come due di loro, due cuochi che sono rimasti all’interno della struttura per dare una mano in cucina.

Una volta uscita dal residence, mi sono subito tornati in mente gli occhi di quei ragazzi che cercavano i miei come in attesa di una risposta. Volevano sapere quando avrebbero potuto lasciare quel luogo per poter dare seguito alla loro rincorsa verso la libertà e, magari, la felicità.

Purtroppo, non ho potuto dare loro la risposta che cercavano. Mi chiedo, però, quale sia il senso di questa attesa, a chi giovi lo stallo in cui versa il centro di Mineo. Non di sicuro ai migranti e neppure allo Stato, che comunque versa laute somme per finanziare il centro e pagare l’affitto ai proprietari del residence. Ecco, a voler pensare male, si può seguire la via del denaro per provare a darsi una prima risposta. Anche se la più solida sembra un’altra: quella che trova radici nella politica di un governo che, dopo essersi vantato di aver chiuso le frontiere e trovandosi adesso costretto ad aprirle, vuole nascondere il suo fallimento almeno fino all’indomani delle elezioni amministrative.

(L’europarlamentare Rita Borsellino ha visitato il centro di Mineo. Ecco la sua cronaca diretta).


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