"Vi racconto mio padre | Il grande Renzo Barbera" - Live Sicilia

“Vi racconto mio padre | Il grande Renzo Barbera”

Renzo Barbera, con la moglie Giuliana

Oggi avrebbe compiuto novantasette anni. Il ricordo della figlia.

Il compleanno
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Renzo Barbera amò molto. Oggi, avrebbe compiuto novantasette anni. Quel tempo che non si è cristallizzato per via della morte, sopravvenuta nel 2002, rinasce sempre nella memoria di chi ricambiò il suo amore. Fino all’ultima carezza, fino all’ultimo sguardo, fino all’ultima goccia.

Ialù Barbera è la figlia del presidentissimo del Palermo. Ne dissemina qui qualche breve traccia che forse farà bene ai tifosi rosanero: ormai hanno solo ricordi teneri e sgualciti per provare a sorridere.

“Era un uomo generoso – racconta Ialù, il cui nome risuona con uno sciabordio di cose antiche e preziose -. Nessuno di coloro che sono venuti a bussare alla sua porta è mai tornato indietro a mani vuote. Perfino adesso incontro persone che mi dicono: signora, suo padre mi ha regalato questo, signora, suo padre mi ha regalato quello. Era pazzo di me. Avevo diciotto anni, mi presentò alla squadra, ai giovanotti del Palermo d’allora, poi pronunciò parole indimenticabili: ‘Ragazzi, ecco mia figlia. Ora che l’avete vista, potete pure scordarvela’. Papà dipendeva dai nostri colori. Sabato, la sera prima della partita, quando noi figli dovevamo uscire, era tutto un ‘vai avanti tu’ per chiedergli la paghetta di fine settimana. Sempre gentile, ma teso”.

Era il dio del calcio, Renzo Barbera, il demiurgo del pallone a spicchi, a Palermo. Il suo cuore pompava gli olè di una curva ricolma. Il suo sguardo manteneva lo stupore dei bambini davanti a una palla che rotola. Si giocava, nel frattempo, il campionato delle figurine Panini da vincere a ‘battone’ o a ‘letterina’, in certe disfide clandestine, nei corridoi di una scuola elementare. L’epopea di Novantesimo minuto consacrava le immagini dei gol della domenica, ponendo fine all’astinenza dell’appassionato. La diretta Sky non esisteva. Prima della faccia rassicurante di Paolo Valenti, le reti del pomeriggio assumevano la consistenza labile di un miraggio sul muro del soggiorno.

“Io mi chiamo Maria Ludovica – continua Ialù –. Dovevamo accontentare le nonne. Il nome che porto è composto dalle due lettere residue del primo e da quelle iniziali del secondo. Con papà ho vissuto una interminabile storia d’amore. I suoi gesti di vicinanza non li dimenticherò mai, come quando salì al santuario di Santa Rosalia e lì rimase fino alla nascita di mia figlia. Non ho mai ricevuto uno schiaffo. Però con lui era sconsigliatissimo alzare gli occhi al cielo, in segno di stizza. Si arrabbiava, non tollerava mancanze di rispetto”.

Una figura forte: “Era rimasto orfano da ragazzo. Fu lui ad aiutare la sua famiglia”. Una passione verso il pallone, situato al posto del muscolo cardiaco: “Durante la partita col Bologna (la finale di Coppa Italia beffarda che tutti hanno ben presente, ndr) io e mamma eravamo accanto a papà. Giuro che per poco non morì d’infarto. E io ruppi un braccialetto per la rabbia”.

Ma certe storie sono belle proprio perché perdenti nel conto della serva e del pallottoliere, eppure vincenti nei quartieri assolati della nostra felicità. Il rimpianto sopravvive sulla magia agrodolce di non avere stretto un sogno che sarebbe stato svilito dalla circostanza di essersi avverato. 

Renzo Barbera fu, infine, uno splendido vecchio. Nelle sere e nei tramonti che ormai si consumavano, si scorgeva il suo profilo, appena curvo, in via dei Nebrodi, accanto alla villa di famiglia e a una siepe di gelsomino. Il profumo di quei fiori rubati al cemento compone ancora, nell’olfatto dell’amarcord, un inestricabile groviglio di gioiose malinconie.

 


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