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Lo Zen, la politica e la città

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È il più famoso piano di edilizia economica popolare di Palermo e tra i più noti nel resto d’Italia. Ma la sigla evoca ben altro: Zen. E non importa che abbia cambiato nome, che sia oggi San Filippo Neri. Dobbiamo ancora fare i conti con lo Zen. Tornare a pensare lo Zen è un fatto politico. Ci dice molto sull’incapacità di una città di pensarsi in maniera policentrica, a dispetto delle intenzioni dell’architetto che ideò la zona espansione nord alla fine degli anni Sessanta. Ripensare lo Zen ci dice molto su una classe dirigente che guarda ai cittadini quasi esclusivamente in termini di serbatoio di voti. Forse non è un caso che il peggior risultato politico delle forze di sinistra in città, e cioè il disfacimento di uno straordinario strumento di partecipazione come le primarie, sia avvenuto a partire da un luogo simbolo come lo Zen, in cui il voto è stato dichiarato ufficialmente “inquinato”.

Una situazione, a mio parere, peggiore della situazione vissuta con il celebre 61 a 0 conquistato dalle truppe berlusconiane nella competizione elettorale del 2001. Perché non c’è più alcuna presunta superiorità etica a cui appellarsi e se è possibile ricostruire sulle macerie, oggi la maggioranza delle cosiddette forze ex progressiste preferisce di gran lunga danzare tra le macerie piuttosto che costruire una casa, in cui sperimentare la fatica di una convivenza con chi è diverso da me.

La sinistra (non solo, certo) è divisa in tante insule che non comunicano tra loro. Al di là delle metafore urbanistiche, lo Zen è ancora un a volta la pietra d’inciampo della politica cittadina. È il luogo in cui diritti fondamentali, quali il diritto al voto, alla casa e alla sicurezza sono più incerti. Sono merce, il cui valore è da negoziare di volta in volta. Con le forze dell’ordine, con la mafia, con i politici. Se c’è una cosa che impara presto chi vive in ai margini della città è che tutto è negoziabile. Tutto si compra e tutto ha un prezzo. Ma il concetto di cittadinanza si basa sul fatto che alcuni diritti sono, senza incertezze, tuoi. Non devi trattare per averli, poiché discendono da quel vincolo fra i membri di una comunità che lega ciascuno al suo prossimo. Civis romanus sum, dicevano con orgoglio in età classica, per rivendicare la pienezza dei propri diritti. Un individuo che risieda allo Zen 2 può sostenere con altrettanta fierezza la propria condizione di uguaglianza rispetto agli altri suoi concittadini? E se ciò non avviene, questo non costituisce una ferita per l’intera comunità politica?

Ogni città ha un’anima, ha scritto qualcuno, ed è quest’anima che fa la differenza tra un insieme di tribù e una città vera e propria. Il compito di una politica degna di questo nome sarebbe quello di individuare i modi per re-inventare quest’anima ogni giorno, per salvaguardare un tessuto sociale dai suoi impazzimenti. Vorrebbe dire, nel breve periodo, interrompere il circuito clientelare che si crea in occasione di ogni elezione, allo Zen come nel resto della città, per cui il voto diventa una merce da vendere al miglior offerente; iniziare ad offrire opportunità e non finti posti di lavoro in un centro commerciale o in qualche cooperativa in cambio della preferenza elettorale; investire nell’istruzione e nella cultura, offrendo alla scuola e ai sevizi sociali dello Zen maggiori risorse (“non si possono fare le parti uguali tra disuguali”, diceva don Lorenzo Milani”), e difendere quegli spazi come un presidio di libertà, senza lasciarli in balia dei vandali; mandare allo Zen il personale migliore: i maestri più motivati, gli spazzini più efficienti, i giardinieri più bravi.

E bisognerebbe fare un appello alla Chiesa, perche vi mandi i suoi preti migliori. E coinvolgere gli artisti e i poeti, perché allo Zen occorre portare anche bellezza. Ingenuità? Ma può chiamarsi politica lo spettacolo a cui assistiamo?


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